lunedì 28 aprile 2014

8

“E non posso dirmi sognatore, ché i miei sogni non hanno alcunché di reale o realizzabile o in cui sperare. Sono le utopie di un folle che ha deciso in modo conscio di continuare a credere nelle fate, nelle bacchette magiche e nelle storie malinconiche e fantastiche dei cavalieri erranti. E come Don Chisciotte posso vivere e voglio vivere solo in tali mondi di fiaba, triste e vuoto in mancanza di quelle follie.
E quella che era solo solitudine e tristezza sta mutando in rabbia ed io mi sento avvelenato e velenoso allo stesso tempo.
Perché il mondo che mi è intorno mi dispiace e non mi emoziona, solo pallida imitazione dell’isola che non c’è.
Non sono un poeta perché non ho la sensibilità necessaria a descrivere il mio male, né per capirlo del tutto. Posso solo soffrire e piangere. Ma la mia rabbia è la poesia più grande del nostro mondo privo di magia.
La mia rabbia va al di sopra di tutto, sorvola ogni testa rasata del nostro mondo, ogni nuvola fatta di fumo: e vola come sa fare soltanto la poesia.
Ma la poesia dovrebbe essere di carta, la poesia dovrebbe morire nella carta. Odio la mia rabbia perché non muore mai, si assopisce soltanto, pronta a saltarmi addosso, a saltare addosso al mondo. E quando si sveglia ha tanta fame. E fa sempre più paura.
Non sono un poeta, un artista, un pazzo, un dio o un demone. Non sono niente di questo, eppure a volte mi sento poeta ed artista e pazzo e dio e demone e molto altro. Sono un mutante. Diverso da tutto il resto. Odiato dal mondo intero che io stesso odio. E la mia rabbia diviene comprensione, la mia solidarietà è anche follia omicida. Ogni mia speranza è la paura di qualcun altro, e la mia.
Sono il cancro putrescente del mondo, la chiave che apre ogni lucchetto. E non sono niente.
La mia preghiera è ascoltata da mille demoni che mi odiano e mi innalzano al cielo, agli inferi. Preferisco essere odiato in paradiso o venerato e coccolato come un figlio all’inferno? Meglio inseguire per una vita intera l’amore impossibile che ci illumini il cuore e restare soli per sempre, o stare stretti tra le braccia calde di una donna priva di virtù? In un angolo degli inferi possiamo trovare il nostro paradiso... basterebbe volerlo trovare.
E non posso dirmi sognatore perché i miei sogni sono bruciati, soffocati dal fuoco eterno della paura, l’emozione più potente, quella che domina i cieli e la terra e i mari. E me.”

giovedì 24 aprile 2014

7

Una notte piovosa, di quella pioggia fina che è allo stesso tempo violenta e leggiadra e sembra quasi essere pudica, e leggera, per non disturbare. La pioggia che punge e dà i brividi. La pioggia che ti confonde la vista.
C’erano lui, la notte, la pioggia e i lunghi binari di una ferrovia: freddi e di metallo, con quelle assicelle di legno fradicie di pioggia, marcite dal tempo, invecchiate e supplicanti aiuto.
Oltre i binari, nel punto sconosciuto in cui quelli finivano, soltanto il cielo nero illuminato da un lampo, due lampi, tre lampi. Oltre i binari soltanto Dio e la sua immensità, la sua furia, la sua ira inarrivabile, la sua follia risoluta e terribile. Oltre quei binari mille visioni ed un solo, desolato paesaggio. Un solo cielo nero d’odio, nero di notte, nero squarciato di luce. E quella luce era così intensa nell’attimo in cui esisteva da illuminare tutto il mondo e far sembrare tutto ancora più oscuro nel momento in cui spariva, inesorabilmente. Ed era una luce viva.
L’aria era fredda e i suoi vestiti gli stavano appiccicati addosso, completamente bagnati come erano. Lui stava seduto al centro delle rotaie, a fissare quel macabro quadro romantico, a gambe incrociate mentre mormorava la sua preghiera più importante.
Vedeva lungo quelle rotaie la vita che avrebbe vissuto e la strada che avrebbe percorso, dritta e apparentemente infinita, proprio come quella rotaia.
Due fischi nel cielo e lo stridere sordo del metallo sul binario, quindi la furia del treno, insensibile ed inarrestabile come quel Dio oggetto di mille preghiere. Correva in direzione dell’uomo che restava seduto impassibile, come se potesse fermare la corsa del treno o non gli interessassero le conseguenze dello scontro. Magari era solo troppo pigro o distratto, ma qualunque fosse la realtà, restava fisso a guardare avanti, apparentemente senza paura. La pioggia continuava a cadere violenta e a bagnarlo senza alcuna pietà.
Ormai poteva vedere il muso del treno accorgendosi dei minimi particolari, di ogni piccolo sportello, e quando era sempre più vicino, di ogni adesivo, quasi ogni piccola saldatura.
E a dire il vero fu attanagliato dal terrore mentre continuava impassibile a guardare il treno. E passarono secondi interminabili mentre il treno compiva la sua strada, percorreva ciò per cui era stato creato. L’uomo rimase immobile sino all’ultimo, in preda al panico ma allo stesso tempo impaziente di scoprire il grande dolore, la grande liberazione.
Non fu che un tonfo vuoto, quindi il vuoto che tutto divora. Il buio spettrale della morte.
Si svegliò di soprassalto nel suo letto, sudato e con il cuore che gli batteva troppo forte. E quel letto era davvero troppo grande per starci da solo.
Non sapeva se essere felice o meno del fatto che tutto fosse un sogno. Sarebbe stata una morte romantica, come lui.

domenica 20 aprile 2014

6

Si svegliò di soprassalto e fuori dalla finestra chiusa era ancora buio. Baciò il ciondolo che aveva al collo come faceva ogni volta che andava a dormire ed ogni volta che si svegliava.
Era la quinta notte di seguito che si svegliava alla luce della lampada sul suo comodino, a fissare le pareti spoglie che chiudevano la sua stanza intorno a lui. Per la quinta notte di seguito aprì il quaderno poggiato sotto al letto, tolse il cappuccio alla penna blu ed iniziò a scrivere tutte le chimere che lo costringevano sveglio: cercò di mettere per iscritto i canti dannati delle sirene che lo tormentavano.
E in ogni notte aveva scritto così tanto senza rendersene conto da immaginare che la sua penna fosse stata fatata o che egli stesso fosse entrato in una specie di stato di trance tale da fargli perdere coscienza eppure amplificarla in modo da renderlo poeta e filosofo. Non poteva neanche immaginare quante volte in futuro avrebbe chiamato quella penna fatata e quante storie atroci avrebbe descritto, piuttosto che poesie e pensieri sull’universo.
Anche quella notte scrisse come un forsennato, fino a che la mano non gli dolse e oltre. Scrisse finché non fu giorno, sfinito eppure soddisfatto. Poche volte poteva dirsi soddisfatto di se stesso, e quando scriveva succedeva sempre.
Forse dopo tanti anni di ricerca folle e ricolma di tristezza era riuscito a trovare uno scopo per la sua vita: qualcosa che lo rendesse completo e finalmente felice. Allo stesso tempo si accorgeva però di come quello che scrivesse non fosse reale e che quindi non potesse che dargli soltanto l’illusione della felicità. E a dire il vero quando rileggeva quello che aveva appena scritto provava paura per quello che ci trovava dentro e per quello che temeva di poter diventare.

Posò il quaderno di nuovo sotto al letto, con l’angoscia che tornò ad avvolgerlo come un mantello scarlatto. E i suoi sogni mattinieri furono dello stesso colore.

giovedì 17 aprile 2014

5

Quando il suo sguardo incrociò gli occhi sorridenti della ragazza bionda seduta da sola all’altro tavolo tutto il resto perse importanza.
Non c’erano stelle a brillare su di loro e nessun tramonto sfumava di rosso il loro viso, eppure niente di tutto questo gli mancò di fronte alla serenità e alla luminosità del di lei splendido viso.
Sentì la musica spegnersi così come tutte le voci giovani, stupide, futili ed ignobili che risuonavano nel locale.
Ed ogni pensiero svanì dalla sua testa fino a che non rimasero solo lui e lei al mondo.
E trovò nei suoi occhi ogni pensiero che la guidasse, tutti i sogni che la accompagnavano durante le notti piovose, ogni diamante di speranza che le desse la voglia di vivere. La forza di vivere. Quella che lui non aveva.
La guardava ed immaginava che quel sorriso intelligente, attento, fosse per lui, che la rimirava stupito di tale bellezza e che non era a sua volta passato inosservato. Immaginava di alzarsi ed andare al suo tavolo, porgendole la mano ed inginocchiandosi al suo cospetto, mentre le dedicava mille poesie create sul momento soltanto per lei, che era la sola ad esserne degna, la sola ad essere limpida. Lei che era diversa.
Lei non avrebbe certo riso durante un suo intervento in classe, non lo avrebbe mai preso in giro per la balbuzie o la erre moscia; lei che lo avrebbe ascoltato davvero e non lo avrebbe mai considerato pazzo; lei che poteva capirlo perché era diversa, come lo era lui.
Vedeva le sue labbra carnose ed immaginava le mille pagine d’amore che aveva letto in decine di libri di poesia, e le sue labbra rimanevano stupite delle parole che le avrebbe voluto sussurrare, consce  che tutto si sarebbe concluso in un valzer di baci e passione e amore. Vita.
Si riebbe dal paradiso e si ritrovò seduto, con le mani in mano e la bocca semiaperta in una patetica espressione di splendida meraviglia.
Sorseggiò il suo succo di frutta da solo come ogni giorno, solo che quel giorno gli sembrò amaro, troppo amaro. Forse perché quel giorno si sentiva particolarmente triste, o più probabilmente perché per la prima volta nella sua vita non aveva voglia di stare da solo. 
Ora aveva voglia di bere il suo succo insieme a lei, brindando al loro incontro e ridendo entrambi di gusto per ogni minima sciocchezza.
E da quell’incontro sarebbe nata la loro storia, fatta di irreale magia: fatta di milioni di giorni passati insieme e ognuno diverso dall’altro, ogni giorno più piacevole di quello precedente, fatti di mille colori e di mille profumi, come nelle favole.
Sarebbe bastato alzarsi e andarle a parlare per cercare di rendere quelle fantasie reali, ma il coraggio non lo supportava, quel tipo di coraggio non gli apparteneva.
Giocava nervosamente con le mani e guardava sempre più insistentemente la biondina: era il terzo anno di liceo per lui e lei doveva essere in primo visto che non si era mai accorto di lei; eppure gli sembrava avesse uno sguardo ed una espressione di naturale maturità. Non ostentava la sua enorme bellezza e anzi sembrava trascinarsela dietro con l’aria di chi in effetti non può fare altrimenti. Come se fosse un difetto in realtà.
A lui quel difetto non dispiaceva affatto.
Leggeva in quella sua candida bellezza tutta la tanto decantata perfezione divina. E sapeva, manco lo avesse letto su un qualche libro sacro, che quella perfezione avrebbe contagiato anche lui, aiutandolo quantomeno a non vedere solo fango.
Così bella e così tanto vicino a lui, e così tanto desiderabile da rendere amaro il suo succo di frutta preferito. Così bella da rendere più amaro e più fangoso tutto quanto il mondo ; tanto luminosa da colorare le più buie notti, ma anche da far impallidire il sole.
Era l’angelo più bello del paradiso e potenzialmente il demone più potente e crudele, capace di piegare tutto e tutti al proprio volere, capace come un vampiro di farsi invitare a casa e morderti al collo. Capace di farti sognare la vita.
Ora lui doveva solo trovare la forza per alzarsi e andare a parlarle, ma una cosa era pensare di farlo, tutt’altra cosa sarebbe stato prendere il coraggio a due mani e fronteggiarsi con la propria paura più grande. Le proprie paure più grandi. Due cose che riusciva a capire poco e male, che non aveva mai accettato del tutto: l’altro e l’amore.
Ci pensò e ci pensò troppo. Quando finalmente si alzò, sentì le gambe tremargli e il cuore battergli troppo forte, da far male. Camminò quasi barcollando verso di lei, senza avere ancora in mente cosa avesse potuto dirle, impacciato nei movimenti ed impacciato nei pensieri.
Si trovò di fronte a lei, lui in piedi e lei seduta, che sembrava essere lì solo ad attenderlo, ad attendere le sue parole, ad attendere il suo amore. Era stupenda, biondissima e dalla carnagione scura, le orecchie un pochino a punta, gli occhi neri come il petrolio, profondi e lontani come quelli di chi sa sognare. Il suo viso era privo di trucco, le sue labbra chiare, lievi e carnose.
Trovò davvero la forza di parlare, illuminato e guidato dalla sua bellezza che vista così da vicino sembrava ancora più grande. In un istante capì Shakespeare, Dante e Petrarca come non era mai riuscito a fare, capì il loro amore e la loro ispirazione. Ma lui non era un poeta, non lo era mai stato e mai lo sarebbe stato: “sento di amarti, tu mi completi. Vieni con me, ti prego.”
E le porse la mano e si sentì libero dopo aver pronunciato quelle parole.
La guardò per un paio di secondi, cercando speranza in quegli occhi bui, mentre attendeva la sua risposta.
Lei scoppiò in una risata fragorosa, umiliante, dissacrante.
E la sua voce fu splendida e leggiadra alle orecchie di lui. Non capì tutto immediatamente e non gli fu facile accettarlo neanche quando lei si alzò per andarsene via.
Rimase di sasso, senza alcun pensiero in testa, con il braccio teso verso la sedia vuota.
Tutto il locale riprese vita, ogni rumore riprese a tormentarlo, la sua paura e il suo odio montarono nuovamente.
Si sentì triste.

4

Era una notte tempestosa, buia e completamente senza luna.
Osservando la furia del mare e le onde spumeggianti decise di ascoltare e perdersi tra i mille canti di sirena che gli risuonavano dolci in testa.
Respirava lentamente e quasi non si muoveva, come se avesse paura di farsi notare o di svegliare qualcuno. Naturalmente però nessuno era tanto folle da stare sulla spiaggia con quel tempo, nessuno tranne egli stesso.
Aveva forse paura di svegliare qualcosa dunque? Qualcosa che sonnecchiava soltanto, e sempre con un occhio aperto.
Cercava di mantenere gli occhi aperti perché sapeva che se li avesse chiusi non si sarebbe più controllato, sapeva che si sarebbe sentito furioso e forte ed incontrollabile. Sapeva che si sarebbe svegliato l’altro. E non sapeva se quell’altro gli facesse più paura quando era tra la gente o piuttosto adesso che era solo, che erano soli e avrebbe avuto tutto il tempo di mettergli strane idee in testa, di farlo pensare e di farlo impazzire.
E ora era solo e si sentiva tanto debole e le voci di quelle sirene erano così melodiose, assolutamente irresistibili. E non ci provò neanche a resistere, complici la morbida sabbia e il vento fresco e rilassante.
La sua mano si mosse quasi automaticamente, lenta, romantica come la paura, furiosa come la paura, secca come la solitudine.
 Mentre la pioggia gli batteva incessante sui lunghi capelli neri, scivolandogli sugli occhi, il grosso cacciavite che aveva nella destra gli penetrò il piede sinistro, nudo e fradicio e subito sporco di sangue. Lo spinse dentro e fuori più e più volte, finché quel piede non fu quasi del tutto sventrato, pieno di buchi e completamente insanguinato.
Urlando dal dolore e immerso nella furia si trapassò anche il braccio sinistro, quasi all’altezza del gomito, solo mezza spanna più giù.
Si costrinse a chiudere la bocca e a soffrire mordendosi le labbra mentre iniziava a sentire il freddo entrargli dentro e penetrarlo come il metallo.
Mentre il sangue sporcava la sabbia le voci delle sirene si trasformavano in quelle stridule e raccapriccianti di streghe terribili.
Le ascoltò inebriato mentre si dissetava del proprio sangue e rideva istericamente e la pioggia gli entrava dentro.

mercoledì 16 aprile 2014

3

Sollevò la scure e la calò con violenza sul corpo a terra percorso da mille fremiti e convulsioni.
La mano fredda della morte colpì un corpo che aveva già perso l’anima, che era in grado solo di urlare e piangere e pregare.
La ragazza sdraiata sul pavimento si era rivolta a quegli occhi furiosi che lo sovrastavano cercando pietà e gridando e farfugliando frasi senza senso. E la speranza, quella folle di chi non ha nulla da perdere, non l’abbandonò neanche quando la lama insanguinata le lambì la gola e penetrò la sua carne morbida.
Negli occhi dell’uomo c’erano le rocce carbonizzate e fumanti dell’inferno, il fuoco sacro dell’odio, il ghiaccio tetro della solitudine. Nella sua mano la decisione, nessuna paura e zero esitazioni.
Aveva il viso sporco di sangue, e così le mani e tutti i vestiti, ma in quel momento fu vivo e si sentì completo.
L’uomo cadde in ginocchio a fianco alla sua vittima ed incrociò le mani possenti rivolte verso il cielo. Abbassò lo sguardo e pregò Dio.
Non appena ebbe finito aprì il suo diario e ci pianse sopra, e pianse con gli occhi e con la penna e bagnò la pagina di lacrime e sangue e sporco, poetico inchiostro.
Lentamente i suoi occhi tornarono a vedere il mondo per come era in realtà e la furia, l’odio e la paura divennero consapevolezza e il fuoco che aveva dentro si spense in un’immensa tristezza.
La penna continuava a marcare il foglio come se fosse stata fatata mentre il carnefice soffocava tra lacrime e sangue, come ogni volta che aveva aperto quelle pagine maledette per narrare le sue opere maledette, per spiegarle, per liberarsi da esse.
Non appena chiuse il diario si sentì sfinito e sentì di non provare niente: nessun sentimento, nessuna emozione. Aveva solo fame.
Mangiò.

2

Sollevò la testa a guardare dritto dinanzi a sé, sfuggendo ai mille canti di sirena che aveva in testa.
La voce stanca, annoiata e saccente del professore era un sottofondo di pianoforte in una canzone metal: difficile da ascoltare, monotona, inadeguata.
L’aula rischiava di esplodere in quel frastuono di batteria e chitarra elettrica fatto di voci stridule di studenti e stridii di sedie sul pavimento impolverato.
Il palco era illuminato da neon resi opachi dal tempo.
Fuori dalla finestra neanche il brullo paesaggio autunnale riusciva a soffocare quel senso di inadeguatezza che sentiva crescere dentro di sé.
Guardava gli alberi secchi e le foglie gialle e si sentiva come se anche lui dovesse cadere a terra da un momento all’altro, alla prima folata di vento un po’ più forte.
Sapeva di essere diverso dal predicatore seduto dietro la cattedra, che cianciava senza ascoltare, che parlava senza usare l’anima; sapeva d’altro canto di essere altrettanto diverso dai cinque, dieci, venti ragazzini della sua stessa età eppure tanti banali e stolti e stupidi da essere soltanto in grado di urlare e strepitare a malomodo, come per una strana involuzione dell’idioma umano e dell’umanità stessa.
Sorrise a quel pensiero, e fu un sorriso amaro, quello di chi è di fronte ad uno schifo, sa di non poter fare nulla per cambiarlo e odia. Sorrise di odio.
Una puntura d’ago è solo un pungichio sulla pelle, ma mille spilli conficcati nel cervello ti fanno credere di essere pazzo.
Aveva voglia di sputare addosso a tutti quelli che gli stavano davanti, i belli che si sentivano troppo belli e i brutti, quelli davvero troppo brutti e addosso a quelli senza un briciolo di curiosità. Voleva sputare su tutta quella gente spenta.
Si sentiva pazzo, ma forse era solo sbagliato.

1

Si sistemò gli occhiali mentre cercava le parole da rivolgere a Dio. Le scelse con cura ed iniziò a mugolare a bassa voce, in preghiera.
Si sorprese a chiudere gli occhi e ad immaginare le sembianze di quel Dio che stava pregando. Riuscì soltanto a vederlo immenso, gigantesco, sfocato di fronte ai suoi occhi stretti nelle palpebre.
A dire il vero non era mai riuscito a capire cosa potesse essere un Dio: una mano che tutto plasma, tutto cura e tutto distrugge, a seconda della luna.
Si rivolgeva spesso a quel Dio, la sera tardi o al mattino appena svegliato.
Ancora più spesso si era domandato se davvero ci fosse qualcuno ad osservare e giudicare, o se l’Olimpo fosse disabitato e le nuvole soltanto macchie bianche nel cielo.
Non voleva pensarci, faceva di tutto per allontanare quell’idea malsana ed insistente.
Sollevò il bicchiere davanti a sé, fissandolo come se nel liquido che conteneva ci fosse la verità assoluta, pronta da leggere per lui.
Mentre teneva alto il bicchiere lasciò la mente libera, lasciandole ancora spazio per pensare, cercare.
Scavava in continuazione, cercando di andare sempre più in profondità, trovando sempre e solo buio.
Altra domanda che si faceva spesso riguardava proprio quel buio e da dove provenisse: si chiedeva in quale momento della sua vita i suoi sogni fossero diventati oscuri e aveva provato e riprovato a scoprire il momento esatto, a ricordare, fino a giungere alla conclusione, triste e cruda e reale, che il suo cervello fosse sempre stato nero, la sua anima buia.
Non c’erano mai stati sogni quando era stato bambino e ogni colore era sempre stato un po’ sfocato.
La rabbia che lo nutriva e da cui veniva assalito non nasceva se non nel suo cuore, e non moriva mai, al massimo si assopiva.
Sorseggiò avidamente il sangue contenuto nel bicchiere e il liquido vermiglio gli scivolò in gola accarezzandogli il palato e la lingua, e si sentì rinfrancato, si sentì vivo.
Chiuse gli occhi per un istante assaporando l’agrodolce gusto del sangue: in quel sapore forte e delicato allo stesso momento trovò la brillantezza di un cielo blu come non lo aveva mai visto e il rombo della tempesta più grigia e cattiva. Scoprì il sogno più bello e il più terrorizzante degli incubi.
Contemplò di nuovo la felicità e si sentì vivo.
Un attimo dopo si stava domandando se fosse giusto così, sentendosi furioso ed adrenalinico.
Represse quella domanda in un altro sorso e tossì sentendosi la gola infiammata.
Sostenne per qualche secondo il proprio sguardo riflesso nello specchio che aveva di fronte, in quella serata fatta di troppe domande, e scoppiò in un pianto dirotto: pensò ancora a quel Dio freddo, calcolatore e spietato che osservava, derideva e uccideva dall’alto e se ne sentì la brutta copia. Lui che osservava, schifava e massacrava per poter sopravvivere.
Pensò alla sua carne da macello e all’odio che provava per loro, per quella loro incredibile stupidità. Pensò alla sua ascia che così tanto somigliava alla mano impietosa di Dio. La vide spaccare ossa e penetrare carni e recidere muscoli.
Seppe ancora una volta di essere superiore, forse non un dio, ma per quello poteva fare finta.
Assaggiò la carne che aveva nel piatto e ripensò agli occhi stupidi di quello stupido ragazzo che fu.
E si sentì onnipotente. E si sentì vivo.