giovedì 17 aprile 2014

5

Quando il suo sguardo incrociò gli occhi sorridenti della ragazza bionda seduta da sola all’altro tavolo tutto il resto perse importanza.
Non c’erano stelle a brillare su di loro e nessun tramonto sfumava di rosso il loro viso, eppure niente di tutto questo gli mancò di fronte alla serenità e alla luminosità del di lei splendido viso.
Sentì la musica spegnersi così come tutte le voci giovani, stupide, futili ed ignobili che risuonavano nel locale.
Ed ogni pensiero svanì dalla sua testa fino a che non rimasero solo lui e lei al mondo.
E trovò nei suoi occhi ogni pensiero che la guidasse, tutti i sogni che la accompagnavano durante le notti piovose, ogni diamante di speranza che le desse la voglia di vivere. La forza di vivere. Quella che lui non aveva.
La guardava ed immaginava che quel sorriso intelligente, attento, fosse per lui, che la rimirava stupito di tale bellezza e che non era a sua volta passato inosservato. Immaginava di alzarsi ed andare al suo tavolo, porgendole la mano ed inginocchiandosi al suo cospetto, mentre le dedicava mille poesie create sul momento soltanto per lei, che era la sola ad esserne degna, la sola ad essere limpida. Lei che era diversa.
Lei non avrebbe certo riso durante un suo intervento in classe, non lo avrebbe mai preso in giro per la balbuzie o la erre moscia; lei che lo avrebbe ascoltato davvero e non lo avrebbe mai considerato pazzo; lei che poteva capirlo perché era diversa, come lo era lui.
Vedeva le sue labbra carnose ed immaginava le mille pagine d’amore che aveva letto in decine di libri di poesia, e le sue labbra rimanevano stupite delle parole che le avrebbe voluto sussurrare, consce  che tutto si sarebbe concluso in un valzer di baci e passione e amore. Vita.
Si riebbe dal paradiso e si ritrovò seduto, con le mani in mano e la bocca semiaperta in una patetica espressione di splendida meraviglia.
Sorseggiò il suo succo di frutta da solo come ogni giorno, solo che quel giorno gli sembrò amaro, troppo amaro. Forse perché quel giorno si sentiva particolarmente triste, o più probabilmente perché per la prima volta nella sua vita non aveva voglia di stare da solo. 
Ora aveva voglia di bere il suo succo insieme a lei, brindando al loro incontro e ridendo entrambi di gusto per ogni minima sciocchezza.
E da quell’incontro sarebbe nata la loro storia, fatta di irreale magia: fatta di milioni di giorni passati insieme e ognuno diverso dall’altro, ogni giorno più piacevole di quello precedente, fatti di mille colori e di mille profumi, come nelle favole.
Sarebbe bastato alzarsi e andarle a parlare per cercare di rendere quelle fantasie reali, ma il coraggio non lo supportava, quel tipo di coraggio non gli apparteneva.
Giocava nervosamente con le mani e guardava sempre più insistentemente la biondina: era il terzo anno di liceo per lui e lei doveva essere in primo visto che non si era mai accorto di lei; eppure gli sembrava avesse uno sguardo ed una espressione di naturale maturità. Non ostentava la sua enorme bellezza e anzi sembrava trascinarsela dietro con l’aria di chi in effetti non può fare altrimenti. Come se fosse un difetto in realtà.
A lui quel difetto non dispiaceva affatto.
Leggeva in quella sua candida bellezza tutta la tanto decantata perfezione divina. E sapeva, manco lo avesse letto su un qualche libro sacro, che quella perfezione avrebbe contagiato anche lui, aiutandolo quantomeno a non vedere solo fango.
Così bella e così tanto vicino a lui, e così tanto desiderabile da rendere amaro il suo succo di frutta preferito. Così bella da rendere più amaro e più fangoso tutto quanto il mondo ; tanto luminosa da colorare le più buie notti, ma anche da far impallidire il sole.
Era l’angelo più bello del paradiso e potenzialmente il demone più potente e crudele, capace di piegare tutto e tutti al proprio volere, capace come un vampiro di farsi invitare a casa e morderti al collo. Capace di farti sognare la vita.
Ora lui doveva solo trovare la forza per alzarsi e andare a parlarle, ma una cosa era pensare di farlo, tutt’altra cosa sarebbe stato prendere il coraggio a due mani e fronteggiarsi con la propria paura più grande. Le proprie paure più grandi. Due cose che riusciva a capire poco e male, che non aveva mai accettato del tutto: l’altro e l’amore.
Ci pensò e ci pensò troppo. Quando finalmente si alzò, sentì le gambe tremargli e il cuore battergli troppo forte, da far male. Camminò quasi barcollando verso di lei, senza avere ancora in mente cosa avesse potuto dirle, impacciato nei movimenti ed impacciato nei pensieri.
Si trovò di fronte a lei, lui in piedi e lei seduta, che sembrava essere lì solo ad attenderlo, ad attendere le sue parole, ad attendere il suo amore. Era stupenda, biondissima e dalla carnagione scura, le orecchie un pochino a punta, gli occhi neri come il petrolio, profondi e lontani come quelli di chi sa sognare. Il suo viso era privo di trucco, le sue labbra chiare, lievi e carnose.
Trovò davvero la forza di parlare, illuminato e guidato dalla sua bellezza che vista così da vicino sembrava ancora più grande. In un istante capì Shakespeare, Dante e Petrarca come non era mai riuscito a fare, capì il loro amore e la loro ispirazione. Ma lui non era un poeta, non lo era mai stato e mai lo sarebbe stato: “sento di amarti, tu mi completi. Vieni con me, ti prego.”
E le porse la mano e si sentì libero dopo aver pronunciato quelle parole.
La guardò per un paio di secondi, cercando speranza in quegli occhi bui, mentre attendeva la sua risposta.
Lei scoppiò in una risata fragorosa, umiliante, dissacrante.
E la sua voce fu splendida e leggiadra alle orecchie di lui. Non capì tutto immediatamente e non gli fu facile accettarlo neanche quando lei si alzò per andarsene via.
Rimase di sasso, senza alcun pensiero in testa, con il braccio teso verso la sedia vuota.
Tutto il locale riprese vita, ogni rumore riprese a tormentarlo, la sua paura e il suo odio montarono nuovamente.
Si sentì triste.

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