domenica 29 giugno 2014

26

Marcire in galera. Il verbo è appropriato rispetto alle sensazioni che provava da recluso.
Marciva mentre i suoi capelli si facevano bianchi, mentre le rughe cominciavano a segnargli il viso, mentre si insozzava i polmoni, una sigaretta alla volta.
E come sempre il mondo continuava ad andare avanti, continuava a riempirsi della merda che l’uomo gli spalmava sopra, veniva stuprato, il mondo.
E la parte davvero inquietante di quel gioco perverso stava nel fatto che lui non si rendesse conto di tutto questo. Come se il mondo stesse ad aspettare che venisse scarcerato. Non lo avrebbe aspettato il suo migliore amico, nel caso ne avesse avuto uno, figurarsi il mondo, sconosciuto ed infame.
E si stancava della sua vita fatta di niente, e si era annoiato del mondo che non cambiava, perché per lui era così.
Aveva letto dei libri in galera, quelli vecchi perché non credeva ne fossero usciti di nuovi: decine di libri ammucchiati sotto il letto o sopra il comodino, e all’inizio gli era parso interessante, persino appagante, fino a che non si rese conto di non avere nessuno a cui raccontarli, nessuno con cui parlarne.
E forse tutto quanto si riduceva ad una stupida chiacchierata: con tua madre, tuo fratello, tuo marito, la tua ragazza, una persona appena conosciuta, un tuo caro amico, la tua prossima vittima legata ad una sedia ed implorante pietà.
Ma era solo.
Dannazione.
Lo era sempre stato.
E  comunque desiderava ardentemente che il mondo lo aspettasse: pregava di continuo un qualche Dio perché una volta uscito non trovasse auto volanti o robot tuttofare o pasta modificata geneticamente, da mangiare cruda.
Non voleva che il sistema operativo installato sul suo pc fosse obsoleto, figurarsi.
Sapeva che altrimenti, in un mondo nuovo, egli stesso sarebbe divenuto obsoleto, ancora più di quanto non lo fosse già stato.
Ancora più solo, ancora di più fuori da ogni schema e da ogni accettata normalità.
Ma la sua era solo vecchiaia.
Era semplicemente il corso naturale di ogni vita.
Il corso di una vita da vivere rinchiuso.

mercoledì 25 giugno 2014

25

Sporcò la tela con un gesto essenziale, quasi dovuto, di qualcuno che ha nel cuore l’opera di una vita e può realizzarla con una semplicità indicibile, perché ha tutto stampato davanti agli occhi: una foto in bianco e nero del mondo perfetto.
Schizzò allegramente, vivacemente, di ogni colore, con foga e violenza, ché non poteva sbagliare e si sentiva davvero invincibile.
In quel salotto impolverato e vecchio, risaltava come un gioiello di bigiotteria esasperato il treppiedi  con la tela poggiata sopra.
A dipingere, esaltato e quasi in estasi, un uomo dalle braccia fini e lunghe, qualche traccia di bianco in testa e un paio di occhiali dalla montatura tenuta su con lo scotch.
Era in piedi, davanti alla sua poltrona preferita, con i cuscini bucati e la stoffa consunta.
Era in piedi, barcollante, che dipingeva le visioni di una vita.
Per terra, in un angolo buio, c’era disteso un cadavere, pallido e rigido. Un uomo vestito bene e con il cranio fracassato.
Sangue sparso d’intorno come se fosse scoppiata una bomba: chiazze, schizzi, tracce di trascinamento.
La stanza era intrisa dell’odore di muffa tipico dei luoghi chiusi e di quello di sudore del pittore.
E poi c’era il cadavere.
Un gesto dopo l’altro, una pennellata di seguito a quella precedente, cercava di completare l’incompletabile, come se davvero potesse essere così facile esprimere se stessi e raccontare quello che sta intorno.
Cercava, quasi senza volerlo, la libertà che non aveva mai trovato, e si scatenava su una tela bianca cui dare significato.
Come un dio plasma il suo mondo.
L’uomo sdraiato sul pavimento doveva essere morto già da qualche giorno, e il sangue rappreso che aveva addosso era quasi nero, l’unico colore che il pittore aveva lasciato inutilizzato nel suo flacone ancora integro.
Il mondo intorno al pittore non sarebbe mai cambiato davvero, non grazie a quel dipinto quantomeno.
Ma pensava al mondo, e guardava al suo scarabocchio di colori, e sentiva la vita su quella tela, e già donare un’anima ad un mondo che non ce l’ha, è un capolavoro.
E sapeva farselo bastare.

domenica 22 giugno 2014

24

Era solo un’altra delle sue perversioni mentali, quella degli scacchi.
E naturalmente era una perversione sporca di sangue: anche soltanto perché la scacchiera che immaginava era ricoperta di macchie come lo sarebbe un vero campo di battaglia.
Ma la vera perversione, secondo lui, l'alienazione del gioco rispetto alla realtà, stava nel fatto che su un campo di battaglia vero, non molti si sacrificherebbero per il proprio re, anche quando amato e rispettato.
In questo senso diceva che il gioco andasse contro la sensibilità umana.
Era convinto fosse la parte del gioco più difficile da spiegare: il re non può stare sotto scacco.
Tutto va per lui sacrificato.
Lunga vita al re.
E mentre il cavallo salta da un bianco a un nero mozzando teste e l’alfiere semina il panico per metà scacchiera, il re resta al suo posto, protetto e praticamente inoffensivo.
Fulcro del gioco e come nessun’altra figura lontano dal gioco stesso.
Lunga vita al re.
Giocava da solo a scacchi, manovrando i neri come i bianchi, e spesso gli sembrava di farlo nella vita come nel gioco. A perdere era sempre lui. Come anche a vincere, si direbbe.
Ma non è la stessa cosa.
A morte il re.
Come quando sentiva l’irrefrenabile istinto di uccidere, come un impulso sessuale o come una divina chiamata. E poi sentiva la propria anima marcire, nel rimorso e nella disperazione.
Ogni volta uno scacco. Mai matto.
Il folle era lui.
Lunga vita al re.
E non poteva muoversi mai, per mettere in salvo il re. Non poteva evolvere il proprio gioco, per potere mettere in salvo il re.
Era un fottuto schiavo del re.
Magari schiavo di un ideale, o di un sogno, come preferiva.
Un ideale irrealizzabile, un sogno privo di concretezza. Solo la maschera di un motivo per vivere.
Era un pedone assetato di sangue.
Un pedone può essere sacrificato.
Poi era il re onnipotente che regnava sui bianchi e sui neri.
Scacco.
Era solo un’altra delle sue perversioni.

mercoledì 18 giugno 2014

23

I momenti davvero terribili erano quelli in cui la lucidità prendeva il sopravvento. L’odio che provava si faceva distinto, chiaro, pulito.
In quei momenti dismetteva il suo caleidoscopio mentale, la nebbia si diradava e riusciva a ragionare e in un tempo si rendeva conto di quanto inutili potessero essere i suoi sogni e tutti i suoi viaggi mentali che poco avevano dei sogni, così come si sentiva ancora più vuoto e più solo.
I sogni lasciavano spazio alla disillusione.
L’odio sfiatava in rabbia repressa.
Sentiva montare quel senso di inutilità che lo tormentava, che non poteva sopportare.
La pazzia gli permetteva ancora di vivere le emozioni di un bambino, la calma e la lucidità invece lo sfinivano.
Spesso quei momenti gli capitavano nelle giornate in cui la pioggia si faceva battente, quasi schizofrenica, come se il suo disagio fosse stato in grado di cambiare il tempo.
Se ancora aveva la speranza di poter cambiare il mondo era perché neanche gli passava per la testa che potessero essere il mondo, la gente o il tempo a condizionarlo. 
Erano attimi terrificanti perché fatti di coscienza, non di furia.
Quelle volte non si sarebbe sporcato le mani, perché non sarebbe stato in grado di fare tutto quello che sapeva fare.
Quasi si faceva vile, debole, insulso come i mostri che lo circondavano.

La follia era sua amica. Era la sua amante.

lunedì 16 giugno 2014

22

Sputò sul corpo esanime, gridando l’ultimo respiro della sua rabbia.
Quindi si lasciò cadere, esausto. Incapace persino di pensare.
Il cadavere coperto di sangue sembrava chiedergli di essere il suo giaciglio, duro e spigoloso.
E in quei momenti le coltellate con le quali gli aveva squarciato il petto non dimoravano  già più nella sua memoria.
Come se fosse una storia di cent’anni prima.
Quasi come se non fosse mai esistita tale storia.
Solo quel corpo a terra, di fianco a lui, lo riportava alla realtà.
Almeno in parte, per quanto fosse capace di vivere la realtà.
Era il segno tangibile che qualcosa fosse accaduto: là dove la testa si rifiutava di arrivare, ci arrivava la carne morta di quell’uomo a terra.
E doveva essere passato davvero poco da quando aveva massacrato quel tizio, eppure già sentiva il bisogno inarrestabile di farlo ancora.
Come se si potesse paragonare il suo bisogno di uccidere alla necessità di creare di un artista.
Certo è una somiglianza ardua da comprendere, non è per tutti.
Qualcosa che possono capire in pochi.
Lui si sentiva un artista. Amava fare quello che faceva e lo faceva con lo stomaco.
Sentiva la necessità di creare e distruggere: scriveva e dipingeva avendo in bocca il sapore del sangue, le dita sporche di sangue, il cuore annerito dal sangue.
Un artista tanto alto nel suo animo e un assassino crudele e volgare. Le due facce, l’una aliena all’altra, della splendida e maledetta luna. 
Dormì per ore su quel corpo, a fianco a quel corpo, insabbiando nel sonno i suoi demoni, più che mai conscio che appena sveglio quei mostri sarebbero tornati più cattivi di prima, immemori del sangue versato.
E ora stava riposando, si stava godendo la distruzione e la perpetrava. Tutto era solo distruggere e creare.
Ma non era tanto bravo a creare.
Amava il mondo e lo odiava profondamente.
Se esprimeva la sua arte lo faceva per migliorarlo, quello stesso mondo che distruggeva quotidianamente.
O forse anche sfogando quella rabbia cercava di proteggere la sua tana.
O ancora il mondo non c’entrava niente, c’erano solo lui e i suoi istinti.
Dio non si interessa  delle sue creature.
Dio non è benevolo e Dio non è malvagio: costruisce e disfa solo perché ne ha voglia.

giovedì 12 giugno 2014

21

Si tolse gli occhiali e pulì le lenti con la maglietta.
Era una serata tremenda, di quelle da dimenticare: pioveva a dirotto, in tv come al solito non c’era nulla di interessante, e dopo le prime tre righe il libro di Ellis che stava leggendo gli si chiudeva davanti.
Una sera da massacro interiore.
Una sera in cui ogni ricordo ritorna a galla, per farti sorridere o molto più per farti scoppiare in lacrime.
Era una di quelle sere in cui ti rendi conto che la tua vita sta finendo un poco alla volta e ti senti come se fossi soltanto uno spettatore: e cazzo, su quel palco pieno di toppe non succede mai niente di interessante.
Una sera di quel tipo che fa sembrare insignificante ogni tua impresa.
Puoi vedere solo l’uomo che finisce, che si consuma in una sigaretta, in una coca cola, in una risata forzata.
Scaraventò contro la parete il libro che non stava leggendo.
E allora notò le vecchie macchie sui muri, e l’umidità che li stava divorando e gli sembrò che quei muri rispecchiassero la sua anima.
Sporca, erosa, lasciata a morire neanche troppo lentamente.
In un istante e solo per un istante pensò di cambiare tutto:adattarsi, tornare a vivere pienamente nella società, accettare quelle regole che disprezzava, farsi accettare da tutta quella gente che lo disprezzava.
Ma fu solo un lampo, di follia o di normalità.
Prese la penna e un foglio di carta, macchiato di chissà cosa.
Rimase a fissare quel pezzo di carta per degli interi minuti, senza staccare mai lo sguardo e tenendo la penna a pochi centimetri dalla superficie bianca quadrettata, senza mai toccarla con la punta.
Si accarezzava il braccio destro rabbrividendo ad ogni imperfezione della pelle, ad ogni piccola, superficiale cicatrice che la deturpava, o che la decorava.
Poi chiuse gli occhi e li riaprì di colpo, come ispirato o impaurito.
Era una sera come tante altre.
Una delle troppe serate grigie  che distruggono il mondo e che rendono ogni vita futile e terribile.
Era una di quelle sere passate davanti alla tv, o a ragionare del niente nascosto dal buio della solitudine. O a non fare niente.
Sere buttate. Giorni buttati. Mesi buttati.
Intere esistenze che si cancellano dal mondo.
Intere esistenze che distruggono il mondo e lo ricostruiscono a modo loro, vuoto.
Un mondo fatto di osceni teatrini, e l’uomo non è eterno.
Tirò via la penna e il foglio.
Si infilò sotto le coperte, nel letto, chiuse gli occhi e sperò che quella sera finisse il prima possibile
Ma a dirla tutta, che vita lo attendeva, il giorno dopo, e ancora giorno dopo giorno?

domenica 8 giugno 2014

20

Chiuse la porta, incamminandosi poco sicuro verso la sua destinazione.
Era una notte buia, di un freddo inverno, secca e ghiacciata.
Il bosco sembrava la perfetta scenografia di un film dell’orrore.
La selva di rami privi di foglie formava una ragnatela complessa, come una labirintica trappola per ogni bambino che temesse l’uomo nero.
Era solo a poche centinaia di metri da casa, ma di notte in quel bosco, ti sarebbe potuto sembrare di non avere mai avuto una casa.
La luna vegliava alta sul mondo, coperta da una coltre di nubi, ed era una luna piccola e pallida, quasi incapace di stare al proprio posto.
Ed entrò nel bosco, tra gli alberi e le sterpaglie, attraversando un sentiero disconnesso e stretto, stringendosi il corpo con le braccia per farsi coraggio.
Non era solo una sciocca promessa fatta davanti allo specchio: era giunta l’ora che il terrore infantile di mille mostri in agguato lo abbandonasse.
La nebbia scendeva a banchi, nascondendo i misteri di quel luogo invisibile a Dio, e quel ragazzino non aveva mai avuto tanta voglia di stare a casa a leggere un libro, a studiare filosofia, o peggio ancora a fare gli esercizi di matematica.
Aveva incubi da esplorare.
La nebbia calava e saliva inquieta, mentre il ragazzo avanzava a passi brevi, attenti ed intimoriti. Era il passo felpato di un felino che si sente in pericolo, con la testa alta, guardingo, pronto alla fuga.
Il bosco cominciava ad avvolgerlo
Ormai, un passo alla volta, era nella selva di alberi, e ogni volta che si guardava alle spalle vedeva sempre più buio, si sentiva sempre più solo, vulnerabile, indifeso.
Girava la testa da una parte e dall’altra, a guardarsi intorno, certo di scorgere creature innominabili in attesa di assalirlo, e aveva lo stomaco in gola, sentiva i muscoli privi di forza.
Poté resistere solo pochi minuti fra mille versi di mille animali e fruscii terrificanti.
Si voltò di scatto, aumentando l’andatura e ritrovandosi a correre. Uscì dal bosco e continuò ad allontanarsi prima di avere il coraggio di voltarsi ancora verso il suo incubo.
Aveva perso, e sentì che non avrebbe mai avuto una possibilità di vittoria, per tutta la vita.
Era un ragazzino terrorizzato, e lo sarebbe stato per sempre.

giovedì 5 giugno 2014

19

“Ogni giorno è uguale ad un altro. Senza soluzione di continuità, senza un inizio o una fine. Un carillon che suona senza pausa la sua dolce melodia che diviene malata, ipnotica.
Un bambino cade e si sbuccia il ginocchio, e le mani: ma quando la mamma lo rialzerà non gli spiegherà che la vita è solo un continuo cadere, in ginocchio, con la testa bassa.
E non saprà quel bimbo, dalla pelle bianca e gli occhi accesi di vita, che dovrà rialzarsi da solo, con le proprie forze, da trovare oppure da trovare, perché non possono esserci altre possibilità.
E quando si cresce, quando si va avanti, si scoprono la notte ed il giorno, le lacrime e i sorrisi, le luci e le ombre.
Ed è tutto così noioso. Tutto fa troppo male.
Ma il gioco si deve giocare e come non mai si deve saper perdere.
Mano a mano che si diventa grandi, un sorriso cambia di significato e a volte diviene orribile come il ghigno di un malvagio clown cannibale.
Bisogna saper ridere della vita come di uno scherzo puerile. Altrimenti va a finire che ti manca l’aria, e vivere in apnea rende tutto ancora più duro.
Come prendere a calci uno zoppo, o togliere il bastone ad un cieco.
Davvero mi manca l’aria. Perché è sempre la stessa, riciclata, consumata e sporca.
E resto al mondo a guardare ogni identica aurora con occhi diversi e ad ingoiare quell’aria marcia perché spero che le cose un giorno possano cambiare.
Il mondo è uno schifo e io continuo a sognare: solo che i sogni muoiono troppo più spesso degli incubi.
Ogni giorno è uguale ad un altro. Uguale a quello prima, uguale a quello dopo. Perché anche i giorni che sembrano speciali sbiadiscono del loro colore sgargiante. Come niente.
Sono patetico. Ridicolo e patetico.”
Fuori piovigginava, dentro quell’uomo solo e depresso era scoppiata una tempesta.
E la notte era ancora lungi a venire.
L’ora delle streghe e dei lunghi mal di testa fatti di rabbia sarebbe stata eterna come la vita.
Ma la vita non è eterna.

domenica 1 giugno 2014

18


Gridò rivolto alla notte settembrina, ancora calda del ricordo dell’estate, e gridò ancora, per ore, come se fosse l’unica cosa che fosse in grado di fare.
Gridò la sua rabbia, il suo dolore, la sua immensa paura, la sua eterna voglia di cambiare il dipinto nella cornice.
Gridò come faceva spesso, mentre un vento caldo e feroce gli sferzava i vestiti, mentre lui continuava a gridare.
Era pallido in viso, impolverato dalla giornata passata a camminare e a gridare. Era pallido e smunto, perché vuoi il caldo, vuoi il male di vivere, non mangiava da giorni e si maltrattava con odio.
Faceva caldo e un uomo malato urlava guardando il mare, come se quella notte sarebbe dovuto morire.
E forse era già morto, o forse non era mai nato.
Calpestava la sabbia e urlava.
Urlava e basta.

giovedì 29 maggio 2014

17

“La signora coniglietta, Emily,  indossava un mantello e una calzamaglia aderente, ma non era soltanto grazie a quelli che riusciva ad incutere timore nei cuori dei suoi nemici.
Sapeva sgominarli utilizzando mille e uno trucchetti, saltellando qua e là ad una velocità inimmaginabile, scomparendo alla loro vista per ricomparire loro alle spalle. 

Un fulmine di pelo bianco che schizzava da una parte e dall’altra, pronta a mordere con i suoi dentoni da coniglietta, a tagliare con i suoi artigli affilati.
E non c’era demone, o mostro marino, o alieno mutaforme, o scienziato pazzo, o aspirante dittatore che potessero anche solo avere una speranza di vittoria contro di lei.
Era l’incubo di ogni incubo della terra.
Era la paladina del mondo. Il punto di riferimento per tutti quelli che si trovassero in difficoltà.
Altro che politici d’Egitto. Loro non risolvevano problemi, al massimo li creavano.
E ogni notte pattugliava le strade della sua città, per potere difendere tutto ciò che al mondo c’era di bello.
Perché c’era così poco di bello al mondo che bisognava per forza applicarsi per tutelarlo, visto anche quanto fosse difficile, e anzi quasi impossibile, migliorare lo sbagliato.
Era un impegno che sentiva suo, necessariamente.
La signora coniglietta era un’idealista. Utopica e sognatrice.
E avrebbe fatto qualsiasi cosa per realizzare quei sogni, nonostante già sapesse che sarebbe stato tutto inutile.
Così si cambia il mondo.
Non c’è bisogno di avere un mantello o dei superpoteri.
Anche se fanno comodo, a dirla tutta.
Gli ideali cambiano il mondo.
Emily era invincibile perché faceva sentire la sua voce. Urlava le sue ragioni.
Credeva nei sogni e desiderava vivere su un’isola chiamata Utopia.
I singoli cambiano il mondo.
I singoli fanno le rivoluzioni.
In questo modo la signora coniglietta riusciva a cambiare il mondo.
In questo modo Emily era diventata un’eroina.
Anche se con il doveroso aiuto del suo mantello e delle sue straordinarie capacità.
Potere alle idee, alle parole, ai sogni, ai desideri, alle utopie, alle speranze, agli ideali, alle fedi, alle arti...
Potere  alla rivoluzione.
Così si cambia il mondo, e la signora coniglietta, Emily, lo sapeva bene.”

domenica 25 maggio 2014

16

Si ritrovò a cacciare. Senza aver previsto nulla, senza essersi preparato. 
Si lasciò prendere dalla voglia e dall’istinto, così come dovrebbe fare un amante focoso.
Gli stava dietro, gli stava addosso.
E sentiva l’adrenalina scorrergli dentro ed avvelenarlo.
Se quello svoltava, lui lo seguiva.
Sapeva di non dovere farsi scoprire, ed era eccitato e fremeva.
Un felino che doveva contare sulla sua pazienza e non solo sulla forza e la velocità.
Doveva attendere il momento migliore e intanto mimetizzarsi nel grigiore serale della città, per colpire solo quando la preda non avesse avuto una possibilità di sfuggirgli. Rapido, potente, paziente e meticoloso come un grande predatore.
La pioggia incessante bagnava l’asfalto e tirava fuori tutti gli odori della strada. Era l’odore dei gatti randagi e della carta bagnata. L’odore di cacca di cane misto a quello del sudore di centinaia di persone.
E lo smog, tutto era intriso di fumi e gas. 
Gli odori erano smorzati dall’anidride carbonica, i colori resi opachi da nebbie artificiali e malsane.
Il verme era braccato e ancora non se ne era accorto, tanto era stolto. Gli stava addosso, non aveva scampo, ma lui continuava a  giocare col suo telefonino.
Era già morto perché troppo legato alla stupida vita che gli avevano imposto.
E passarono altri dieci minuti di inseguimento, poi non appena il predatore seppe di non potere più sbagliare, non appena fu sicuro che il suo attacco non sarebbe fallito, allora il felino tirò fuori gli artigli e scattò.
Tutti gli odori che aveva sentito vennero cancellati da quello forte e dolciastro del sangue, ogni colore reso opaco dall’immagine di quel rosso brillante ed intenso.
E la bestia placò la sua fame. 
Flagellò la sua preda con tante coltellate da non potere contarle.

La città inghiottì tutto. 
Rimase solo un uomo squartato, sull’asfalto dai mille nauseabondi odori.

giovedì 22 maggio 2014

15

Mentre finiva di leggere quel libro di cui neanche ricordava il titolo si accorse che il mondo intorno a lui stava andando avanti.
Si erano susseguiti i governi e la tecnologia aveva raggiunto la fantascienza. Da parte sua, la fantascienza non si era certo fermata ad aspettare.
Era invecchiato il mondo, impercettibilmente, senza che ce se ne potesse rendere conto, ma era di certo invecchiato.
Era invecchiata la sua città ed ogni altra.
L’umanità era invecchiata, continuando a degenerare e a proliferare.
Il cancro si espandeva implacabile.
Una macchia di petrolio che inquina l’intero oceano.
Il petrolio intrappola ogni altra forma vivente. è vischioso.
Immaginate pesci morti da decenni che galleggiano pancia all’aria per i sette mari.
Per il cancro non esiste cura.
Era eccessivo considerarsi una cura per una malattia tanto grave e ancora sconosciuta.
O magari era lui il cancro e tutta quella gente da niente erano le cellule da annerire.
Dio benedica il relativismo..
Ma lui era un cancro guaribile. Magari non in una settimana, e neanche in un mese, o in un anno, ma sarebbe stata solo questione di tempo. Lui sarebbe finito.
E le cellule sarebbero allora state salve per l’eternità.
E il nero cancro, l’altro, non avrebbe più avuto cure.
Mentre quel libro di cui non ricordava il titolo si andava consumando sotto la morsa tremenda delle sue dita sottili, si accorgeva che anche il mondo, allo stesso modo, era stritolato.
E le città
E l’umanità.
E lui stesso.
Desiderava essere carnefice. E vittima.
Cancro e cellula da attaccare.
Siano per sempre la distruzione e la peste.

Chiuse il libro, si tolse gli occhiali e si addormentò sulla sua poltrona. L’altra era occupata.

domenica 18 maggio 2014

14

“La signora coniglietta era davvero stanca quel giorno.
Correre da una parte all’altra del mondo per salvare il pianeta dalle più disparate minacce non era certo un compito semplice o rilassante. Ma come si dice, qualcuno deve pur farlo.
Quel giorno almeno, nessun altro si offrì volontario.
Gli attacchi extraterrestri erano comuni come un acquazzone in autunno; i mostri marini spuntavano fuori come i funghi dopo quella stessa pioggia; i dittatori folli che volevano dominare il mondo sembravano essere il cinquantuno per cento dei nascituri.
Per quanto i suoi superpoteri la rendessero immensamente forte e resistente, doveva sempre temere il prossimo scontro, la battaglia successiva, perché i cattivi sembravano diventare sempre più numerosi, determinati ed imbattibili.
Dura la vita della paladina, ma certamente neanche paragonabile a quella che viveva come moglie.
Mille volte più insidiosa e stancante.
Così, come se non fossero bastati i supercattivi, a casa ad aspettarla, ansioso, c’era Chicco, il signor coniglietto, e allora la faccenda si complicava sul serio: trovare ogni sera un modo diverso per cucinare le carote che tanto adorava era un impegno mentale oltre che fisico.
E poi prima di andare a letto c’era da sistemare il disordine creato dal maritino, immaturo, mai cresciuto veramente e sempre troppo giocherellone.
E quanto sarebbe stato utile quel lavoro? Il giorno dopo tutto sarebbe stato magicamente di nuovo in disordine.
Santa pazienza.
Ora si era lavata i dentoni da coniglietta e si era preparata per la notte. Il signor coniglietto l’aspettava nel lettone così che lei potesse trovare il suo lato già caldo ed accogliente. Chicco era davvero dolcissimo, nessuno poteva negarlo.
Si infilò sotto le coperte per il momento che valeva tutta la giornata: il momento delle coccole. Solo il pensiero delle coccole di quel pelosone le dava la forza di arrivare a fine giornata, ed ogni sera quel mascalzone di un coniglio continuava a farle vivere la storia fantastica del loro amore.
Erano instancabili coccoloni. E si sa, una coccola tira l’altra, specie quando si è morbidi e con gli occhioni dolci.
Quindi la tenera buonanotte degli innamorati.
E mentre il signor coniglietto dormiva profondamente, lei non riuscì a prendere sonno a causa del suo russare forte ed insistente. Quanto lo amava...
E la signora coniglietta si preparava ad un’altra durissima giornata.”


Rise divertito e compiaciuto della sua opera.
Parecchio compiaciuto.
Ripose il quaderno ed andò a dormire.

giovedì 15 maggio 2014

13

Era un ronzio nella sua testa.
Stava cercando in tutti i modi di vivere serenamente, ignorando l’odore di marcio che lo circondava, vivendo ogni esperienza come se fosse un dono divino, sottolineando a se stesso che il mondo non era fatto solo di escrementi e rifiuti industriali: c’erano le verdi distese d’erba e le cascate maestose e scroscianti. 
Non c’era solo corruzione, ma anche poesia.
Ma non c’era niente da fare. 
Quel ronzio era tanto fastidioso da non lasciarlo respirare, e più cercava di pensare ad altro, più veniva assalito dall’ansia e da un’angoscia che nasceva in fondo al suo cuore.
Solo, sdraiato nel suo letto, sudava e combatteva contro le coperte. Si dimenava in modo nervoso, incapace di prendere sonno.
Cercava nei suoi ricordi le immagini di gioia e felicità tanto usurate nelle pubblicità della televisione: ogni sorriso che gli avessero rivolto e ancora di più, quei pochi che aveva distribuito.
Mentre si rosicchiava le unghie pensava ai suoi sogni per il futuro, per quando fosse cresciuto e finalmente sarebbe riuscito a valere qualcosa, avendo voce in capitolo, per decidere, nel suo piccolo, cosa potesse essere meglio per se e per i suoi.
Già, ma adesso era soltanto un ragazzino, che oltre a sentirsi incompreso non era neanche a sua volta in grado di capire il mondo. E quel poco che capiva gli sembrava tutto fuorché vivibile: guerra, povertà, la distruzione del mondo. Mentre i gatti miagolavano alla luna, la luna beffarda scrutava nel fondo di quegli occhi tristi di felino. E oltre al giallo, nel fondo di quelle pupille nere, c’erano solo tristezza ed indifferenza nei confronti di un mondo buio.
E mano a mano che la notte cresceva, il ronzio saliva d’intensità e prendeva il sopravvento su ogni altro pensiero.
E così lo angosciavano la stupidità e l’immoralità del sogno americano e allo stesso modo l’amore insensato e folle delle sue compagne di classe per il cantante del momento.
Davvero l’uomo poteva essere tanto superficiale? Ci comportiamo da decerebrati per uniformarci alla massa e ci vestiamo da clown per potere avere una camera puntata su di noi, anche solo per un istante: e davvero siamo così ciechi da non renderci conto che tutto sta andando a puttane?
Ma certo, si fottano i nostri prossimi e i nostri più grandi amici. 
Si leghi per il collo anche nostra madre, quell’inutile puttana della nostra mamma, e si getti nel cesso il nostro grande amore: questo ed altro per esaudire i nostri egoistici desideri personali.
Ma allora, di che sarà fatto il nostro mondo se non di plastica?
Eppure a volte riusciva ancora ad incantarsi di fronte alle magie che il mondo sapeva mostrargli: ma in quel momento non gliene veniva in mente neanche una.

E la notte era ancora così lunga.

lunedì 12 maggio 2014

12

Sorseggiò il suo succo di frutta lentamente, perché non aveva nulla da fare, null’altro per lo meno.
Quindi se lo gustava lentamente, assaporando il settantacinque per cento di frutta più arancione che avesse mai assaggiato.
Ci stava facendo caso in quel preciso istante: i succhi di frutta, alla mela o alla pesca, all’arancia o alla pera, sono sempre arancioni.
Di certo troppo arancioni per essere davvero fatti per il settantacinque per cento di frutta.
E mentre se lo gustava pensava a quali schifezze sintetiche ci fossero dentro per farlo diventare tanto arancione.
Eppure era buono.
Sapeva di frutta, quindi non poteva essere così male. Quella era la sua marca preferita.
Sentiva di potersi fidare perché erano trentacinque anni che comperava solo quella marca e non aveva mai avuto neanche il più piccolo sentore del fatto che quei fantastici succhi arancione potessero far male.
Si fidava di quella cazzo di marca di succhi di frutta.
Rise nervoso.
Il bicchiere ormai era mezzo vuoto e la poltrona narcotica stava cominciando a fare effetto.
Prese una freccetta  dal comodino alla sua destra, una di quelle freccette colorate e con la punta di ferro: mirò e respirò a fondo.
Il suono secco del bersaglio colpito, da gustare come il succo.
Ne prese un’altra e ancora respirò a fondo.
Stesso suono secco, stessa esultanza appena accennata con gli occhi.
Aveva trovato quel gioco di quando era bambino, e quella sera non aveva niente di meglio da fare, ora che anche il succo di frutta era quasi finito.
Aveva trovato solo tre freccette, e di quelle gliene rimaneva soltanto una sul comodino alla sua destra, mentre le altre due erano conficcate al centro del bersaglio.
Quell’ultimo lancio avrebbe dovuto farlo durare il più possibile.
Sorrise: sembrava una serata all’insegna della lotta contro il tempo, solo al contrario.
A rallentare tutto, come avrebbe fatto un amante in vena di divertirsi per tutta la notte.
Certo non poteva dire che il suo divertimento fosse dello stesso tipo, ma davvero non riusciva a trovare niente altro da fare per passare il resto della serata.
Prese il bicchiere e bevve il succo restante, stavolta d’un fiato, con un gesto teatrale. Scrollò leggermente la testa per cercare di svegliarsi un po’ ed assaggiare al massimo tutta la noia della nottata.
E quello della noia era un sapore vero al cento per cento, senza aggiunta di coloranti o conservanti, fatta soltanto di ingredienti assolutamente naturali.
Eppure sentiva che quella noia non potesse fargli troppo male. Forse gli dava modo di rilassarsi un po’.
Posò il bicchiere ormai vuoto e agguantò l’ultima freccetta. Stavolta il respiro fu più profondo. Alzò la testa a guardare il soffitto pitturato da poco, blu elettrico come tutte le altre pareti.
Cercò di essere il più convincente possibile e si rivolse al bersaglio: “ al dodicesimo rintocco del campanile, bastardo, e allora ti riempirò di piombo.” Scoppiò a ridere e tirò.
Ancora quel suono secco e appena percettibile, e stavolta esultò più enfaticamente, alzando le braccia al cielo. E più che al cielo aveva alzato le braccia a quello pseudo-cielo senza nuvole che era il suo soffitto.
Chiuse gli occhi e si rilassò completamente, poggiando la schiena alla poltrona. Ormai un altro giorno si andava spegnendo.
Si girò verso sinistra con lo sguardo: una giovane donna col cranio fracassato e la camicia zuppa di sangue giaceva sull’altra poltrona.
Aveva un occhio chiuso e uno aperto.
La guardò, ci pensò su e la riguardò: “se vuoi giocare anche tu, stacca le freccette da sola, mica posso fare tutto io. E quando hai finito rimettile a posto che abbiamo solo quelle tre. Il succo è in cucina, sul tavolo.”
Dalla bocca morta le colava addosso sangue e vomito.
Lui esplose in una diabolica risata.

giovedì 8 maggio 2014

11

Colpì con forza all’altezza del ventre. 
Quel ragazzino, di molti anni più giovane rispetto a lui, si accasciò a terra, impotente contro i suoi continui attacchi: preda dello sconosciuto, dell'assassino.
Lo colpì in volto, con i pugni e con i calci, per molte volte, senza alcuna pietà.
 Il ragazzo era a terra incapace di difendersi, sovrastato da una furia indicibile oltre che incontenibile. 
E più il sangue scorreva, livido, sull’asfalto, più i colpi scendevano su quello, ormai in stato di semi incoscienza.
Non ebbe bisogno di armi: gli bastò soltanto l’enorme rabbia che si sentiva dentro per massacrare quel giovane  biondo dagli occhi blu.
E non lo colpirono quegli occhi glaciali, ne lo fermarono i lineamenti delicati e puliti, o l’immatura bellezza. Non si fermò un secondo a pensare a cosa stesse distruggendo, o quanto dolore potesse provocare attraverso le sue mani insanguinate veicolate dall’odio tremendo provato verso l’uomo, guidate dalla disillusione per un mondo dannato ed incurabile.
Quelle mani, forti, addirittura mortali, erano l’unica medicina contro quel mondo sporco.
Il ragazzo steso a terra era solo un’infezione da estirpare, sangue da spargere sul nero asfalto.
Lui era il più grande angelo della morte.
E ancora quelle mani che affondavano nella pozza di sangue, l’infetto quasi esanime, col viso deturpato, irriconoscibile.
Ma il sangue continuava a chiamare altro sangue, e quella furia omicida non si era ancora placata. 
E ormai per il malcapitato non si trattava più di morire o sopravvivere, quanto piuttosto di soffrire il meno che fosse possibile, e chiamava la morte come una sua protettrice. 
Come fosse una liberazione.
E finalmente, carnefice e vittima giocavano allo stesso gioco. Finalmente condividevano un desiderio.

E giocarono ancora, fino a che la Signora non giunse, e quell’uomo folle d’ira continuò a colpire anche quando ormai era rimasto da solo a giocare. 
Poi tutto si fermò.

lunedì 5 maggio 2014

10

“E il cielo sta sempre al suo posto a fissare il mondo. E guarda tutto dall’alto del suo blu d’oltremare, blu cobalto, blu di bianco striato. 
E guarda tutto con superiorità e superficialità, mostrando, orgoglioso e vanitoso, tutta la sua esagerata beltà. E quando poeti, scrittori, cantanti ed amanti ne decantano lo splendore, sembrano non accorgersi del suo cinismo, incantati da sfumature ultraterrene, accecati stupidamente dalla leggiadria dei tanti sogni che promette.
E la stoltezza della nostra umanità ci porta a pregare con le mani giunte verso il cielo e gli occhi speranzosi a guardare verso chi la speranza la fa solo annusare.
Chi guarda il cielo, chi sogna il cielo, chi impreca contro il cielo. Il cielo che meriterebbe solo di essere ignorato allo stesso modo di come lui ignora tutti noi e tutte le nostre faccende. Non meriterebbero attenzioni i suoi colori sgargianti e le sua immensa grandezza. I poeti, gli scrittori, i cantanti e gli amanti guardano il cielo come si guarderebbe un Dio: e in adorazione ogni macchia ha storie da narrare, ogni nuvola nasconde mille segreti.
A guardare il cielo da dietro le sbarre tutte le sue magie sembrano sparire nonostante i suoi colori non siano affatto sbiaditi: le nuvole coprono il sole allo stesso modo, il sole lo illumina allo stesso modo e le rondini lo traversano allo stesso modo. Da dietro queste sbarre il Dio Cielo perde tutta la sua poesia.
Per chi è oppresso dal cielo gli angeli non dormono sulle soffici nuvole.
E si fottano i poeti.
Per quelli per cui il cielo è solo un complemento d’arredo, la sua bellezza non può essere trascendentale.
E si fottano tutte le loro patetiche poesie.
Il cielo sta sempre fermo, senza mai scappare. La sua bellezza si può rimirare giorno dopo giorno. Non bisogna credere a chi ci chiede estasiato se abbiamo mai visto un cielo dai colori più belli. Il giorno seguente quel cielo sarà sempre lì e la prossima settimana anche.

Ora per me è facile accorgermene.”

giovedì 1 maggio 2014

9

Quello fu il giorno in cui ebbe più paura. Il giorno in cui si rese conto di essere trascinato dalla passione, in quello che faceva.
Uccidere, massacrare, sotterrare, gli lasciavano addosso una scarica d’adrenalina incontrollabile ed eccitante. 
Molto eccitante.
Non era solo disprezzo ed odio. Non si trattava soltanto del ripugnante puzzo dell’umanità. Sull’altra faccia della medaglia c’era l’allettante sapore del sangue: acre e dolciastro ad uno stesso tempo. Non era solo rabbia e disperazione. C’era da mettere in conto il senso di potere che lo pervadeva in quei momenti: l’attimo prima, quando un paio di occhi terrorizzati lo guardavano supplicanti, e l’attimo dopo, quando il sangue scorreva a fiumi. Quello che c’era in mezzo quasi non esisteva. Succedeva tutto troppo in fretta.
E così si perdeva il meglio, ironia della sorte non riusciva a gustarselo.
Si era svegliato con quel sapore in bocca, quello del sangue, ma forse era stata la sua immaginazione, il desiderio, a farglielo sentire in bocca.
Era poco più che un ragazzo, e si sa quanto siano forti le emozioni che si provano a quell’età. Si sentì trascinare fuori di casa, come un predatore che si appresta a vagare in cerca della sua prossima preda, guardingo ed eccitato. Era una calda mattinata estiva, ma per quanto lo riguardava sarebbe potuta essere una gelida notte invernale.
Era in trance: sentiva solo quel sapore in bocca, a guidarlo attraverso un mondo sfocato.
In quel giorno si sentì malato, incapace di controllare le proprie emozioni, schiavo di mille sensazioni malate
Attese di essere da solo con la sua vittima, una casuale, un ragazzo come ce ne erano tanti, senza nulla di particolare, nessun segno distintivo, nessun motivo per cui odiarlo, disprezzarlo, ucciderlo.
Lo colpì rapido come un felino, senza dargli scampo, con tutta la furia di cui era capace.
Il ragazzo si accasciò a terra, esanime.
Non era privo di ideali, ma comunque era morto. Non era uno di quelli che avevano reso marcio il mondo, ma non si sarebbe più alzato.
Col pugnale insanguinato stretto nel pugno si sentì vivo ed onnipotente. Si sentì colpevole.

lunedì 28 aprile 2014

8

“E non posso dirmi sognatore, ché i miei sogni non hanno alcunché di reale o realizzabile o in cui sperare. Sono le utopie di un folle che ha deciso in modo conscio di continuare a credere nelle fate, nelle bacchette magiche e nelle storie malinconiche e fantastiche dei cavalieri erranti. E come Don Chisciotte posso vivere e voglio vivere solo in tali mondi di fiaba, triste e vuoto in mancanza di quelle follie.
E quella che era solo solitudine e tristezza sta mutando in rabbia ed io mi sento avvelenato e velenoso allo stesso tempo.
Perché il mondo che mi è intorno mi dispiace e non mi emoziona, solo pallida imitazione dell’isola che non c’è.
Non sono un poeta perché non ho la sensibilità necessaria a descrivere il mio male, né per capirlo del tutto. Posso solo soffrire e piangere. Ma la mia rabbia è la poesia più grande del nostro mondo privo di magia.
La mia rabbia va al di sopra di tutto, sorvola ogni testa rasata del nostro mondo, ogni nuvola fatta di fumo: e vola come sa fare soltanto la poesia.
Ma la poesia dovrebbe essere di carta, la poesia dovrebbe morire nella carta. Odio la mia rabbia perché non muore mai, si assopisce soltanto, pronta a saltarmi addosso, a saltare addosso al mondo. E quando si sveglia ha tanta fame. E fa sempre più paura.
Non sono un poeta, un artista, un pazzo, un dio o un demone. Non sono niente di questo, eppure a volte mi sento poeta ed artista e pazzo e dio e demone e molto altro. Sono un mutante. Diverso da tutto il resto. Odiato dal mondo intero che io stesso odio. E la mia rabbia diviene comprensione, la mia solidarietà è anche follia omicida. Ogni mia speranza è la paura di qualcun altro, e la mia.
Sono il cancro putrescente del mondo, la chiave che apre ogni lucchetto. E non sono niente.
La mia preghiera è ascoltata da mille demoni che mi odiano e mi innalzano al cielo, agli inferi. Preferisco essere odiato in paradiso o venerato e coccolato come un figlio all’inferno? Meglio inseguire per una vita intera l’amore impossibile che ci illumini il cuore e restare soli per sempre, o stare stretti tra le braccia calde di una donna priva di virtù? In un angolo degli inferi possiamo trovare il nostro paradiso... basterebbe volerlo trovare.
E non posso dirmi sognatore perché i miei sogni sono bruciati, soffocati dal fuoco eterno della paura, l’emozione più potente, quella che domina i cieli e la terra e i mari. E me.”

giovedì 24 aprile 2014

7

Una notte piovosa, di quella pioggia fina che è allo stesso tempo violenta e leggiadra e sembra quasi essere pudica, e leggera, per non disturbare. La pioggia che punge e dà i brividi. La pioggia che ti confonde la vista.
C’erano lui, la notte, la pioggia e i lunghi binari di una ferrovia: freddi e di metallo, con quelle assicelle di legno fradicie di pioggia, marcite dal tempo, invecchiate e supplicanti aiuto.
Oltre i binari, nel punto sconosciuto in cui quelli finivano, soltanto il cielo nero illuminato da un lampo, due lampi, tre lampi. Oltre i binari soltanto Dio e la sua immensità, la sua furia, la sua ira inarrivabile, la sua follia risoluta e terribile. Oltre quei binari mille visioni ed un solo, desolato paesaggio. Un solo cielo nero d’odio, nero di notte, nero squarciato di luce. E quella luce era così intensa nell’attimo in cui esisteva da illuminare tutto il mondo e far sembrare tutto ancora più oscuro nel momento in cui spariva, inesorabilmente. Ed era una luce viva.
L’aria era fredda e i suoi vestiti gli stavano appiccicati addosso, completamente bagnati come erano. Lui stava seduto al centro delle rotaie, a fissare quel macabro quadro romantico, a gambe incrociate mentre mormorava la sua preghiera più importante.
Vedeva lungo quelle rotaie la vita che avrebbe vissuto e la strada che avrebbe percorso, dritta e apparentemente infinita, proprio come quella rotaia.
Due fischi nel cielo e lo stridere sordo del metallo sul binario, quindi la furia del treno, insensibile ed inarrestabile come quel Dio oggetto di mille preghiere. Correva in direzione dell’uomo che restava seduto impassibile, come se potesse fermare la corsa del treno o non gli interessassero le conseguenze dello scontro. Magari era solo troppo pigro o distratto, ma qualunque fosse la realtà, restava fisso a guardare avanti, apparentemente senza paura. La pioggia continuava a cadere violenta e a bagnarlo senza alcuna pietà.
Ormai poteva vedere il muso del treno accorgendosi dei minimi particolari, di ogni piccolo sportello, e quando era sempre più vicino, di ogni adesivo, quasi ogni piccola saldatura.
E a dire il vero fu attanagliato dal terrore mentre continuava impassibile a guardare il treno. E passarono secondi interminabili mentre il treno compiva la sua strada, percorreva ciò per cui era stato creato. L’uomo rimase immobile sino all’ultimo, in preda al panico ma allo stesso tempo impaziente di scoprire il grande dolore, la grande liberazione.
Non fu che un tonfo vuoto, quindi il vuoto che tutto divora. Il buio spettrale della morte.
Si svegliò di soprassalto nel suo letto, sudato e con il cuore che gli batteva troppo forte. E quel letto era davvero troppo grande per starci da solo.
Non sapeva se essere felice o meno del fatto che tutto fosse un sogno. Sarebbe stata una morte romantica, come lui.

domenica 20 aprile 2014

6

Si svegliò di soprassalto e fuori dalla finestra chiusa era ancora buio. Baciò il ciondolo che aveva al collo come faceva ogni volta che andava a dormire ed ogni volta che si svegliava.
Era la quinta notte di seguito che si svegliava alla luce della lampada sul suo comodino, a fissare le pareti spoglie che chiudevano la sua stanza intorno a lui. Per la quinta notte di seguito aprì il quaderno poggiato sotto al letto, tolse il cappuccio alla penna blu ed iniziò a scrivere tutte le chimere che lo costringevano sveglio: cercò di mettere per iscritto i canti dannati delle sirene che lo tormentavano.
E in ogni notte aveva scritto così tanto senza rendersene conto da immaginare che la sua penna fosse stata fatata o che egli stesso fosse entrato in una specie di stato di trance tale da fargli perdere coscienza eppure amplificarla in modo da renderlo poeta e filosofo. Non poteva neanche immaginare quante volte in futuro avrebbe chiamato quella penna fatata e quante storie atroci avrebbe descritto, piuttosto che poesie e pensieri sull’universo.
Anche quella notte scrisse come un forsennato, fino a che la mano non gli dolse e oltre. Scrisse finché non fu giorno, sfinito eppure soddisfatto. Poche volte poteva dirsi soddisfatto di se stesso, e quando scriveva succedeva sempre.
Forse dopo tanti anni di ricerca folle e ricolma di tristezza era riuscito a trovare uno scopo per la sua vita: qualcosa che lo rendesse completo e finalmente felice. Allo stesso tempo si accorgeva però di come quello che scrivesse non fosse reale e che quindi non potesse che dargli soltanto l’illusione della felicità. E a dire il vero quando rileggeva quello che aveva appena scritto provava paura per quello che ci trovava dentro e per quello che temeva di poter diventare.

Posò il quaderno di nuovo sotto al letto, con l’angoscia che tornò ad avvolgerlo come un mantello scarlatto. E i suoi sogni mattinieri furono dello stesso colore.

giovedì 17 aprile 2014

5

Quando il suo sguardo incrociò gli occhi sorridenti della ragazza bionda seduta da sola all’altro tavolo tutto il resto perse importanza.
Non c’erano stelle a brillare su di loro e nessun tramonto sfumava di rosso il loro viso, eppure niente di tutto questo gli mancò di fronte alla serenità e alla luminosità del di lei splendido viso.
Sentì la musica spegnersi così come tutte le voci giovani, stupide, futili ed ignobili che risuonavano nel locale.
Ed ogni pensiero svanì dalla sua testa fino a che non rimasero solo lui e lei al mondo.
E trovò nei suoi occhi ogni pensiero che la guidasse, tutti i sogni che la accompagnavano durante le notti piovose, ogni diamante di speranza che le desse la voglia di vivere. La forza di vivere. Quella che lui non aveva.
La guardava ed immaginava che quel sorriso intelligente, attento, fosse per lui, che la rimirava stupito di tale bellezza e che non era a sua volta passato inosservato. Immaginava di alzarsi ed andare al suo tavolo, porgendole la mano ed inginocchiandosi al suo cospetto, mentre le dedicava mille poesie create sul momento soltanto per lei, che era la sola ad esserne degna, la sola ad essere limpida. Lei che era diversa.
Lei non avrebbe certo riso durante un suo intervento in classe, non lo avrebbe mai preso in giro per la balbuzie o la erre moscia; lei che lo avrebbe ascoltato davvero e non lo avrebbe mai considerato pazzo; lei che poteva capirlo perché era diversa, come lo era lui.
Vedeva le sue labbra carnose ed immaginava le mille pagine d’amore che aveva letto in decine di libri di poesia, e le sue labbra rimanevano stupite delle parole che le avrebbe voluto sussurrare, consce  che tutto si sarebbe concluso in un valzer di baci e passione e amore. Vita.
Si riebbe dal paradiso e si ritrovò seduto, con le mani in mano e la bocca semiaperta in una patetica espressione di splendida meraviglia.
Sorseggiò il suo succo di frutta da solo come ogni giorno, solo che quel giorno gli sembrò amaro, troppo amaro. Forse perché quel giorno si sentiva particolarmente triste, o più probabilmente perché per la prima volta nella sua vita non aveva voglia di stare da solo. 
Ora aveva voglia di bere il suo succo insieme a lei, brindando al loro incontro e ridendo entrambi di gusto per ogni minima sciocchezza.
E da quell’incontro sarebbe nata la loro storia, fatta di irreale magia: fatta di milioni di giorni passati insieme e ognuno diverso dall’altro, ogni giorno più piacevole di quello precedente, fatti di mille colori e di mille profumi, come nelle favole.
Sarebbe bastato alzarsi e andarle a parlare per cercare di rendere quelle fantasie reali, ma il coraggio non lo supportava, quel tipo di coraggio non gli apparteneva.
Giocava nervosamente con le mani e guardava sempre più insistentemente la biondina: era il terzo anno di liceo per lui e lei doveva essere in primo visto che non si era mai accorto di lei; eppure gli sembrava avesse uno sguardo ed una espressione di naturale maturità. Non ostentava la sua enorme bellezza e anzi sembrava trascinarsela dietro con l’aria di chi in effetti non può fare altrimenti. Come se fosse un difetto in realtà.
A lui quel difetto non dispiaceva affatto.
Leggeva in quella sua candida bellezza tutta la tanto decantata perfezione divina. E sapeva, manco lo avesse letto su un qualche libro sacro, che quella perfezione avrebbe contagiato anche lui, aiutandolo quantomeno a non vedere solo fango.
Così bella e così tanto vicino a lui, e così tanto desiderabile da rendere amaro il suo succo di frutta preferito. Così bella da rendere più amaro e più fangoso tutto quanto il mondo ; tanto luminosa da colorare le più buie notti, ma anche da far impallidire il sole.
Era l’angelo più bello del paradiso e potenzialmente il demone più potente e crudele, capace di piegare tutto e tutti al proprio volere, capace come un vampiro di farsi invitare a casa e morderti al collo. Capace di farti sognare la vita.
Ora lui doveva solo trovare la forza per alzarsi e andare a parlarle, ma una cosa era pensare di farlo, tutt’altra cosa sarebbe stato prendere il coraggio a due mani e fronteggiarsi con la propria paura più grande. Le proprie paure più grandi. Due cose che riusciva a capire poco e male, che non aveva mai accettato del tutto: l’altro e l’amore.
Ci pensò e ci pensò troppo. Quando finalmente si alzò, sentì le gambe tremargli e il cuore battergli troppo forte, da far male. Camminò quasi barcollando verso di lei, senza avere ancora in mente cosa avesse potuto dirle, impacciato nei movimenti ed impacciato nei pensieri.
Si trovò di fronte a lei, lui in piedi e lei seduta, che sembrava essere lì solo ad attenderlo, ad attendere le sue parole, ad attendere il suo amore. Era stupenda, biondissima e dalla carnagione scura, le orecchie un pochino a punta, gli occhi neri come il petrolio, profondi e lontani come quelli di chi sa sognare. Il suo viso era privo di trucco, le sue labbra chiare, lievi e carnose.
Trovò davvero la forza di parlare, illuminato e guidato dalla sua bellezza che vista così da vicino sembrava ancora più grande. In un istante capì Shakespeare, Dante e Petrarca come non era mai riuscito a fare, capì il loro amore e la loro ispirazione. Ma lui non era un poeta, non lo era mai stato e mai lo sarebbe stato: “sento di amarti, tu mi completi. Vieni con me, ti prego.”
E le porse la mano e si sentì libero dopo aver pronunciato quelle parole.
La guardò per un paio di secondi, cercando speranza in quegli occhi bui, mentre attendeva la sua risposta.
Lei scoppiò in una risata fragorosa, umiliante, dissacrante.
E la sua voce fu splendida e leggiadra alle orecchie di lui. Non capì tutto immediatamente e non gli fu facile accettarlo neanche quando lei si alzò per andarsene via.
Rimase di sasso, senza alcun pensiero in testa, con il braccio teso verso la sedia vuota.
Tutto il locale riprese vita, ogni rumore riprese a tormentarlo, la sua paura e il suo odio montarono nuovamente.
Si sentì triste.

4

Era una notte tempestosa, buia e completamente senza luna.
Osservando la furia del mare e le onde spumeggianti decise di ascoltare e perdersi tra i mille canti di sirena che gli risuonavano dolci in testa.
Respirava lentamente e quasi non si muoveva, come se avesse paura di farsi notare o di svegliare qualcuno. Naturalmente però nessuno era tanto folle da stare sulla spiaggia con quel tempo, nessuno tranne egli stesso.
Aveva forse paura di svegliare qualcosa dunque? Qualcosa che sonnecchiava soltanto, e sempre con un occhio aperto.
Cercava di mantenere gli occhi aperti perché sapeva che se li avesse chiusi non si sarebbe più controllato, sapeva che si sarebbe sentito furioso e forte ed incontrollabile. Sapeva che si sarebbe svegliato l’altro. E non sapeva se quell’altro gli facesse più paura quando era tra la gente o piuttosto adesso che era solo, che erano soli e avrebbe avuto tutto il tempo di mettergli strane idee in testa, di farlo pensare e di farlo impazzire.
E ora era solo e si sentiva tanto debole e le voci di quelle sirene erano così melodiose, assolutamente irresistibili. E non ci provò neanche a resistere, complici la morbida sabbia e il vento fresco e rilassante.
La sua mano si mosse quasi automaticamente, lenta, romantica come la paura, furiosa come la paura, secca come la solitudine.
 Mentre la pioggia gli batteva incessante sui lunghi capelli neri, scivolandogli sugli occhi, il grosso cacciavite che aveva nella destra gli penetrò il piede sinistro, nudo e fradicio e subito sporco di sangue. Lo spinse dentro e fuori più e più volte, finché quel piede non fu quasi del tutto sventrato, pieno di buchi e completamente insanguinato.
Urlando dal dolore e immerso nella furia si trapassò anche il braccio sinistro, quasi all’altezza del gomito, solo mezza spanna più giù.
Si costrinse a chiudere la bocca e a soffrire mordendosi le labbra mentre iniziava a sentire il freddo entrargli dentro e penetrarlo come il metallo.
Mentre il sangue sporcava la sabbia le voci delle sirene si trasformavano in quelle stridule e raccapriccianti di streghe terribili.
Le ascoltò inebriato mentre si dissetava del proprio sangue e rideva istericamente e la pioggia gli entrava dentro.

mercoledì 16 aprile 2014

3

Sollevò la scure e la calò con violenza sul corpo a terra percorso da mille fremiti e convulsioni.
La mano fredda della morte colpì un corpo che aveva già perso l’anima, che era in grado solo di urlare e piangere e pregare.
La ragazza sdraiata sul pavimento si era rivolta a quegli occhi furiosi che lo sovrastavano cercando pietà e gridando e farfugliando frasi senza senso. E la speranza, quella folle di chi non ha nulla da perdere, non l’abbandonò neanche quando la lama insanguinata le lambì la gola e penetrò la sua carne morbida.
Negli occhi dell’uomo c’erano le rocce carbonizzate e fumanti dell’inferno, il fuoco sacro dell’odio, il ghiaccio tetro della solitudine. Nella sua mano la decisione, nessuna paura e zero esitazioni.
Aveva il viso sporco di sangue, e così le mani e tutti i vestiti, ma in quel momento fu vivo e si sentì completo.
L’uomo cadde in ginocchio a fianco alla sua vittima ed incrociò le mani possenti rivolte verso il cielo. Abbassò lo sguardo e pregò Dio.
Non appena ebbe finito aprì il suo diario e ci pianse sopra, e pianse con gli occhi e con la penna e bagnò la pagina di lacrime e sangue e sporco, poetico inchiostro.
Lentamente i suoi occhi tornarono a vedere il mondo per come era in realtà e la furia, l’odio e la paura divennero consapevolezza e il fuoco che aveva dentro si spense in un’immensa tristezza.
La penna continuava a marcare il foglio come se fosse stata fatata mentre il carnefice soffocava tra lacrime e sangue, come ogni volta che aveva aperto quelle pagine maledette per narrare le sue opere maledette, per spiegarle, per liberarsi da esse.
Non appena chiuse il diario si sentì sfinito e sentì di non provare niente: nessun sentimento, nessuna emozione. Aveva solo fame.
Mangiò.

2

Sollevò la testa a guardare dritto dinanzi a sé, sfuggendo ai mille canti di sirena che aveva in testa.
La voce stanca, annoiata e saccente del professore era un sottofondo di pianoforte in una canzone metal: difficile da ascoltare, monotona, inadeguata.
L’aula rischiava di esplodere in quel frastuono di batteria e chitarra elettrica fatto di voci stridule di studenti e stridii di sedie sul pavimento impolverato.
Il palco era illuminato da neon resi opachi dal tempo.
Fuori dalla finestra neanche il brullo paesaggio autunnale riusciva a soffocare quel senso di inadeguatezza che sentiva crescere dentro di sé.
Guardava gli alberi secchi e le foglie gialle e si sentiva come se anche lui dovesse cadere a terra da un momento all’altro, alla prima folata di vento un po’ più forte.
Sapeva di essere diverso dal predicatore seduto dietro la cattedra, che cianciava senza ascoltare, che parlava senza usare l’anima; sapeva d’altro canto di essere altrettanto diverso dai cinque, dieci, venti ragazzini della sua stessa età eppure tanti banali e stolti e stupidi da essere soltanto in grado di urlare e strepitare a malomodo, come per una strana involuzione dell’idioma umano e dell’umanità stessa.
Sorrise a quel pensiero, e fu un sorriso amaro, quello di chi è di fronte ad uno schifo, sa di non poter fare nulla per cambiarlo e odia. Sorrise di odio.
Una puntura d’ago è solo un pungichio sulla pelle, ma mille spilli conficcati nel cervello ti fanno credere di essere pazzo.
Aveva voglia di sputare addosso a tutti quelli che gli stavano davanti, i belli che si sentivano troppo belli e i brutti, quelli davvero troppo brutti e addosso a quelli senza un briciolo di curiosità. Voleva sputare su tutta quella gente spenta.
Si sentiva pazzo, ma forse era solo sbagliato.

1

Si sistemò gli occhiali mentre cercava le parole da rivolgere a Dio. Le scelse con cura ed iniziò a mugolare a bassa voce, in preghiera.
Si sorprese a chiudere gli occhi e ad immaginare le sembianze di quel Dio che stava pregando. Riuscì soltanto a vederlo immenso, gigantesco, sfocato di fronte ai suoi occhi stretti nelle palpebre.
A dire il vero non era mai riuscito a capire cosa potesse essere un Dio: una mano che tutto plasma, tutto cura e tutto distrugge, a seconda della luna.
Si rivolgeva spesso a quel Dio, la sera tardi o al mattino appena svegliato.
Ancora più spesso si era domandato se davvero ci fosse qualcuno ad osservare e giudicare, o se l’Olimpo fosse disabitato e le nuvole soltanto macchie bianche nel cielo.
Non voleva pensarci, faceva di tutto per allontanare quell’idea malsana ed insistente.
Sollevò il bicchiere davanti a sé, fissandolo come se nel liquido che conteneva ci fosse la verità assoluta, pronta da leggere per lui.
Mentre teneva alto il bicchiere lasciò la mente libera, lasciandole ancora spazio per pensare, cercare.
Scavava in continuazione, cercando di andare sempre più in profondità, trovando sempre e solo buio.
Altra domanda che si faceva spesso riguardava proprio quel buio e da dove provenisse: si chiedeva in quale momento della sua vita i suoi sogni fossero diventati oscuri e aveva provato e riprovato a scoprire il momento esatto, a ricordare, fino a giungere alla conclusione, triste e cruda e reale, che il suo cervello fosse sempre stato nero, la sua anima buia.
Non c’erano mai stati sogni quando era stato bambino e ogni colore era sempre stato un po’ sfocato.
La rabbia che lo nutriva e da cui veniva assalito non nasceva se non nel suo cuore, e non moriva mai, al massimo si assopiva.
Sorseggiò avidamente il sangue contenuto nel bicchiere e il liquido vermiglio gli scivolò in gola accarezzandogli il palato e la lingua, e si sentì rinfrancato, si sentì vivo.
Chiuse gli occhi per un istante assaporando l’agrodolce gusto del sangue: in quel sapore forte e delicato allo stesso momento trovò la brillantezza di un cielo blu come non lo aveva mai visto e il rombo della tempesta più grigia e cattiva. Scoprì il sogno più bello e il più terrorizzante degli incubi.
Contemplò di nuovo la felicità e si sentì vivo.
Un attimo dopo si stava domandando se fosse giusto così, sentendosi furioso ed adrenalinico.
Represse quella domanda in un altro sorso e tossì sentendosi la gola infiammata.
Sostenne per qualche secondo il proprio sguardo riflesso nello specchio che aveva di fronte, in quella serata fatta di troppe domande, e scoppiò in un pianto dirotto: pensò ancora a quel Dio freddo, calcolatore e spietato che osservava, derideva e uccideva dall’alto e se ne sentì la brutta copia. Lui che osservava, schifava e massacrava per poter sopravvivere.
Pensò alla sua carne da macello e all’odio che provava per loro, per quella loro incredibile stupidità. Pensò alla sua ascia che così tanto somigliava alla mano impietosa di Dio. La vide spaccare ossa e penetrare carni e recidere muscoli.
Seppe ancora una volta di essere superiore, forse non un dio, ma per quello poteva fare finta.
Assaggiò la carne che aveva nel piatto e ripensò agli occhi stupidi di quello stupido ragazzo che fu.
E si sentì onnipotente. E si sentì vivo.