domenica 20 aprile 2014

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Si svegliò di soprassalto e fuori dalla finestra chiusa era ancora buio. Baciò il ciondolo che aveva al collo come faceva ogni volta che andava a dormire ed ogni volta che si svegliava.
Era la quinta notte di seguito che si svegliava alla luce della lampada sul suo comodino, a fissare le pareti spoglie che chiudevano la sua stanza intorno a lui. Per la quinta notte di seguito aprì il quaderno poggiato sotto al letto, tolse il cappuccio alla penna blu ed iniziò a scrivere tutte le chimere che lo costringevano sveglio: cercò di mettere per iscritto i canti dannati delle sirene che lo tormentavano.
E in ogni notte aveva scritto così tanto senza rendersene conto da immaginare che la sua penna fosse stata fatata o che egli stesso fosse entrato in una specie di stato di trance tale da fargli perdere coscienza eppure amplificarla in modo da renderlo poeta e filosofo. Non poteva neanche immaginare quante volte in futuro avrebbe chiamato quella penna fatata e quante storie atroci avrebbe descritto, piuttosto che poesie e pensieri sull’universo.
Anche quella notte scrisse come un forsennato, fino a che la mano non gli dolse e oltre. Scrisse finché non fu giorno, sfinito eppure soddisfatto. Poche volte poteva dirsi soddisfatto di se stesso, e quando scriveva succedeva sempre.
Forse dopo tanti anni di ricerca folle e ricolma di tristezza era riuscito a trovare uno scopo per la sua vita: qualcosa che lo rendesse completo e finalmente felice. Allo stesso tempo si accorgeva però di come quello che scrivesse non fosse reale e che quindi non potesse che dargli soltanto l’illusione della felicità. E a dire il vero quando rileggeva quello che aveva appena scritto provava paura per quello che ci trovava dentro e per quello che temeva di poter diventare.

Posò il quaderno di nuovo sotto al letto, con l’angoscia che tornò ad avvolgerlo come un mantello scarlatto. E i suoi sogni mattinieri furono dello stesso colore.

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