giovedì 29 maggio 2014

17

“La signora coniglietta, Emily,  indossava un mantello e una calzamaglia aderente, ma non era soltanto grazie a quelli che riusciva ad incutere timore nei cuori dei suoi nemici.
Sapeva sgominarli utilizzando mille e uno trucchetti, saltellando qua e là ad una velocità inimmaginabile, scomparendo alla loro vista per ricomparire loro alle spalle. 

Un fulmine di pelo bianco che schizzava da una parte e dall’altra, pronta a mordere con i suoi dentoni da coniglietta, a tagliare con i suoi artigli affilati.
E non c’era demone, o mostro marino, o alieno mutaforme, o scienziato pazzo, o aspirante dittatore che potessero anche solo avere una speranza di vittoria contro di lei.
Era l’incubo di ogni incubo della terra.
Era la paladina del mondo. Il punto di riferimento per tutti quelli che si trovassero in difficoltà.
Altro che politici d’Egitto. Loro non risolvevano problemi, al massimo li creavano.
E ogni notte pattugliava le strade della sua città, per potere difendere tutto ciò che al mondo c’era di bello.
Perché c’era così poco di bello al mondo che bisognava per forza applicarsi per tutelarlo, visto anche quanto fosse difficile, e anzi quasi impossibile, migliorare lo sbagliato.
Era un impegno che sentiva suo, necessariamente.
La signora coniglietta era un’idealista. Utopica e sognatrice.
E avrebbe fatto qualsiasi cosa per realizzare quei sogni, nonostante già sapesse che sarebbe stato tutto inutile.
Così si cambia il mondo.
Non c’è bisogno di avere un mantello o dei superpoteri.
Anche se fanno comodo, a dirla tutta.
Gli ideali cambiano il mondo.
Emily era invincibile perché faceva sentire la sua voce. Urlava le sue ragioni.
Credeva nei sogni e desiderava vivere su un’isola chiamata Utopia.
I singoli cambiano il mondo.
I singoli fanno le rivoluzioni.
In questo modo la signora coniglietta riusciva a cambiare il mondo.
In questo modo Emily era diventata un’eroina.
Anche se con il doveroso aiuto del suo mantello e delle sue straordinarie capacità.
Potere alle idee, alle parole, ai sogni, ai desideri, alle utopie, alle speranze, agli ideali, alle fedi, alle arti...
Potere  alla rivoluzione.
Così si cambia il mondo, e la signora coniglietta, Emily, lo sapeva bene.”

domenica 25 maggio 2014

16

Si ritrovò a cacciare. Senza aver previsto nulla, senza essersi preparato. 
Si lasciò prendere dalla voglia e dall’istinto, così come dovrebbe fare un amante focoso.
Gli stava dietro, gli stava addosso.
E sentiva l’adrenalina scorrergli dentro ed avvelenarlo.
Se quello svoltava, lui lo seguiva.
Sapeva di non dovere farsi scoprire, ed era eccitato e fremeva.
Un felino che doveva contare sulla sua pazienza e non solo sulla forza e la velocità.
Doveva attendere il momento migliore e intanto mimetizzarsi nel grigiore serale della città, per colpire solo quando la preda non avesse avuto una possibilità di sfuggirgli. Rapido, potente, paziente e meticoloso come un grande predatore.
La pioggia incessante bagnava l’asfalto e tirava fuori tutti gli odori della strada. Era l’odore dei gatti randagi e della carta bagnata. L’odore di cacca di cane misto a quello del sudore di centinaia di persone.
E lo smog, tutto era intriso di fumi e gas. 
Gli odori erano smorzati dall’anidride carbonica, i colori resi opachi da nebbie artificiali e malsane.
Il verme era braccato e ancora non se ne era accorto, tanto era stolto. Gli stava addosso, non aveva scampo, ma lui continuava a  giocare col suo telefonino.
Era già morto perché troppo legato alla stupida vita che gli avevano imposto.
E passarono altri dieci minuti di inseguimento, poi non appena il predatore seppe di non potere più sbagliare, non appena fu sicuro che il suo attacco non sarebbe fallito, allora il felino tirò fuori gli artigli e scattò.
Tutti gli odori che aveva sentito vennero cancellati da quello forte e dolciastro del sangue, ogni colore reso opaco dall’immagine di quel rosso brillante ed intenso.
E la bestia placò la sua fame. 
Flagellò la sua preda con tante coltellate da non potere contarle.

La città inghiottì tutto. 
Rimase solo un uomo squartato, sull’asfalto dai mille nauseabondi odori.

giovedì 22 maggio 2014

15

Mentre finiva di leggere quel libro di cui neanche ricordava il titolo si accorse che il mondo intorno a lui stava andando avanti.
Si erano susseguiti i governi e la tecnologia aveva raggiunto la fantascienza. Da parte sua, la fantascienza non si era certo fermata ad aspettare.
Era invecchiato il mondo, impercettibilmente, senza che ce se ne potesse rendere conto, ma era di certo invecchiato.
Era invecchiata la sua città ed ogni altra.
L’umanità era invecchiata, continuando a degenerare e a proliferare.
Il cancro si espandeva implacabile.
Una macchia di petrolio che inquina l’intero oceano.
Il petrolio intrappola ogni altra forma vivente. è vischioso.
Immaginate pesci morti da decenni che galleggiano pancia all’aria per i sette mari.
Per il cancro non esiste cura.
Era eccessivo considerarsi una cura per una malattia tanto grave e ancora sconosciuta.
O magari era lui il cancro e tutta quella gente da niente erano le cellule da annerire.
Dio benedica il relativismo..
Ma lui era un cancro guaribile. Magari non in una settimana, e neanche in un mese, o in un anno, ma sarebbe stata solo questione di tempo. Lui sarebbe finito.
E le cellule sarebbero allora state salve per l’eternità.
E il nero cancro, l’altro, non avrebbe più avuto cure.
Mentre quel libro di cui non ricordava il titolo si andava consumando sotto la morsa tremenda delle sue dita sottili, si accorgeva che anche il mondo, allo stesso modo, era stritolato.
E le città
E l’umanità.
E lui stesso.
Desiderava essere carnefice. E vittima.
Cancro e cellula da attaccare.
Siano per sempre la distruzione e la peste.

Chiuse il libro, si tolse gli occhiali e si addormentò sulla sua poltrona. L’altra era occupata.

domenica 18 maggio 2014

14

“La signora coniglietta era davvero stanca quel giorno.
Correre da una parte all’altra del mondo per salvare il pianeta dalle più disparate minacce non era certo un compito semplice o rilassante. Ma come si dice, qualcuno deve pur farlo.
Quel giorno almeno, nessun altro si offrì volontario.
Gli attacchi extraterrestri erano comuni come un acquazzone in autunno; i mostri marini spuntavano fuori come i funghi dopo quella stessa pioggia; i dittatori folli che volevano dominare il mondo sembravano essere il cinquantuno per cento dei nascituri.
Per quanto i suoi superpoteri la rendessero immensamente forte e resistente, doveva sempre temere il prossimo scontro, la battaglia successiva, perché i cattivi sembravano diventare sempre più numerosi, determinati ed imbattibili.
Dura la vita della paladina, ma certamente neanche paragonabile a quella che viveva come moglie.
Mille volte più insidiosa e stancante.
Così, come se non fossero bastati i supercattivi, a casa ad aspettarla, ansioso, c’era Chicco, il signor coniglietto, e allora la faccenda si complicava sul serio: trovare ogni sera un modo diverso per cucinare le carote che tanto adorava era un impegno mentale oltre che fisico.
E poi prima di andare a letto c’era da sistemare il disordine creato dal maritino, immaturo, mai cresciuto veramente e sempre troppo giocherellone.
E quanto sarebbe stato utile quel lavoro? Il giorno dopo tutto sarebbe stato magicamente di nuovo in disordine.
Santa pazienza.
Ora si era lavata i dentoni da coniglietta e si era preparata per la notte. Il signor coniglietto l’aspettava nel lettone così che lei potesse trovare il suo lato già caldo ed accogliente. Chicco era davvero dolcissimo, nessuno poteva negarlo.
Si infilò sotto le coperte per il momento che valeva tutta la giornata: il momento delle coccole. Solo il pensiero delle coccole di quel pelosone le dava la forza di arrivare a fine giornata, ed ogni sera quel mascalzone di un coniglio continuava a farle vivere la storia fantastica del loro amore.
Erano instancabili coccoloni. E si sa, una coccola tira l’altra, specie quando si è morbidi e con gli occhioni dolci.
Quindi la tenera buonanotte degli innamorati.
E mentre il signor coniglietto dormiva profondamente, lei non riuscì a prendere sonno a causa del suo russare forte ed insistente. Quanto lo amava...
E la signora coniglietta si preparava ad un’altra durissima giornata.”


Rise divertito e compiaciuto della sua opera.
Parecchio compiaciuto.
Ripose il quaderno ed andò a dormire.

giovedì 15 maggio 2014

13

Era un ronzio nella sua testa.
Stava cercando in tutti i modi di vivere serenamente, ignorando l’odore di marcio che lo circondava, vivendo ogni esperienza come se fosse un dono divino, sottolineando a se stesso che il mondo non era fatto solo di escrementi e rifiuti industriali: c’erano le verdi distese d’erba e le cascate maestose e scroscianti. 
Non c’era solo corruzione, ma anche poesia.
Ma non c’era niente da fare. 
Quel ronzio era tanto fastidioso da non lasciarlo respirare, e più cercava di pensare ad altro, più veniva assalito dall’ansia e da un’angoscia che nasceva in fondo al suo cuore.
Solo, sdraiato nel suo letto, sudava e combatteva contro le coperte. Si dimenava in modo nervoso, incapace di prendere sonno.
Cercava nei suoi ricordi le immagini di gioia e felicità tanto usurate nelle pubblicità della televisione: ogni sorriso che gli avessero rivolto e ancora di più, quei pochi che aveva distribuito.
Mentre si rosicchiava le unghie pensava ai suoi sogni per il futuro, per quando fosse cresciuto e finalmente sarebbe riuscito a valere qualcosa, avendo voce in capitolo, per decidere, nel suo piccolo, cosa potesse essere meglio per se e per i suoi.
Già, ma adesso era soltanto un ragazzino, che oltre a sentirsi incompreso non era neanche a sua volta in grado di capire il mondo. E quel poco che capiva gli sembrava tutto fuorché vivibile: guerra, povertà, la distruzione del mondo. Mentre i gatti miagolavano alla luna, la luna beffarda scrutava nel fondo di quegli occhi tristi di felino. E oltre al giallo, nel fondo di quelle pupille nere, c’erano solo tristezza ed indifferenza nei confronti di un mondo buio.
E mano a mano che la notte cresceva, il ronzio saliva d’intensità e prendeva il sopravvento su ogni altro pensiero.
E così lo angosciavano la stupidità e l’immoralità del sogno americano e allo stesso modo l’amore insensato e folle delle sue compagne di classe per il cantante del momento.
Davvero l’uomo poteva essere tanto superficiale? Ci comportiamo da decerebrati per uniformarci alla massa e ci vestiamo da clown per potere avere una camera puntata su di noi, anche solo per un istante: e davvero siamo così ciechi da non renderci conto che tutto sta andando a puttane?
Ma certo, si fottano i nostri prossimi e i nostri più grandi amici. 
Si leghi per il collo anche nostra madre, quell’inutile puttana della nostra mamma, e si getti nel cesso il nostro grande amore: questo ed altro per esaudire i nostri egoistici desideri personali.
Ma allora, di che sarà fatto il nostro mondo se non di plastica?
Eppure a volte riusciva ancora ad incantarsi di fronte alle magie che il mondo sapeva mostrargli: ma in quel momento non gliene veniva in mente neanche una.

E la notte era ancora così lunga.

lunedì 12 maggio 2014

12

Sorseggiò il suo succo di frutta lentamente, perché non aveva nulla da fare, null’altro per lo meno.
Quindi se lo gustava lentamente, assaporando il settantacinque per cento di frutta più arancione che avesse mai assaggiato.
Ci stava facendo caso in quel preciso istante: i succhi di frutta, alla mela o alla pesca, all’arancia o alla pera, sono sempre arancioni.
Di certo troppo arancioni per essere davvero fatti per il settantacinque per cento di frutta.
E mentre se lo gustava pensava a quali schifezze sintetiche ci fossero dentro per farlo diventare tanto arancione.
Eppure era buono.
Sapeva di frutta, quindi non poteva essere così male. Quella era la sua marca preferita.
Sentiva di potersi fidare perché erano trentacinque anni che comperava solo quella marca e non aveva mai avuto neanche il più piccolo sentore del fatto che quei fantastici succhi arancione potessero far male.
Si fidava di quella cazzo di marca di succhi di frutta.
Rise nervoso.
Il bicchiere ormai era mezzo vuoto e la poltrona narcotica stava cominciando a fare effetto.
Prese una freccetta  dal comodino alla sua destra, una di quelle freccette colorate e con la punta di ferro: mirò e respirò a fondo.
Il suono secco del bersaglio colpito, da gustare come il succo.
Ne prese un’altra e ancora respirò a fondo.
Stesso suono secco, stessa esultanza appena accennata con gli occhi.
Aveva trovato quel gioco di quando era bambino, e quella sera non aveva niente di meglio da fare, ora che anche il succo di frutta era quasi finito.
Aveva trovato solo tre freccette, e di quelle gliene rimaneva soltanto una sul comodino alla sua destra, mentre le altre due erano conficcate al centro del bersaglio.
Quell’ultimo lancio avrebbe dovuto farlo durare il più possibile.
Sorrise: sembrava una serata all’insegna della lotta contro il tempo, solo al contrario.
A rallentare tutto, come avrebbe fatto un amante in vena di divertirsi per tutta la notte.
Certo non poteva dire che il suo divertimento fosse dello stesso tipo, ma davvero non riusciva a trovare niente altro da fare per passare il resto della serata.
Prese il bicchiere e bevve il succo restante, stavolta d’un fiato, con un gesto teatrale. Scrollò leggermente la testa per cercare di svegliarsi un po’ ed assaggiare al massimo tutta la noia della nottata.
E quello della noia era un sapore vero al cento per cento, senza aggiunta di coloranti o conservanti, fatta soltanto di ingredienti assolutamente naturali.
Eppure sentiva che quella noia non potesse fargli troppo male. Forse gli dava modo di rilassarsi un po’.
Posò il bicchiere ormai vuoto e agguantò l’ultima freccetta. Stavolta il respiro fu più profondo. Alzò la testa a guardare il soffitto pitturato da poco, blu elettrico come tutte le altre pareti.
Cercò di essere il più convincente possibile e si rivolse al bersaglio: “ al dodicesimo rintocco del campanile, bastardo, e allora ti riempirò di piombo.” Scoppiò a ridere e tirò.
Ancora quel suono secco e appena percettibile, e stavolta esultò più enfaticamente, alzando le braccia al cielo. E più che al cielo aveva alzato le braccia a quello pseudo-cielo senza nuvole che era il suo soffitto.
Chiuse gli occhi e si rilassò completamente, poggiando la schiena alla poltrona. Ormai un altro giorno si andava spegnendo.
Si girò verso sinistra con lo sguardo: una giovane donna col cranio fracassato e la camicia zuppa di sangue giaceva sull’altra poltrona.
Aveva un occhio chiuso e uno aperto.
La guardò, ci pensò su e la riguardò: “se vuoi giocare anche tu, stacca le freccette da sola, mica posso fare tutto io. E quando hai finito rimettile a posto che abbiamo solo quelle tre. Il succo è in cucina, sul tavolo.”
Dalla bocca morta le colava addosso sangue e vomito.
Lui esplose in una diabolica risata.

giovedì 8 maggio 2014

11

Colpì con forza all’altezza del ventre. 
Quel ragazzino, di molti anni più giovane rispetto a lui, si accasciò a terra, impotente contro i suoi continui attacchi: preda dello sconosciuto, dell'assassino.
Lo colpì in volto, con i pugni e con i calci, per molte volte, senza alcuna pietà.
 Il ragazzo era a terra incapace di difendersi, sovrastato da una furia indicibile oltre che incontenibile. 
E più il sangue scorreva, livido, sull’asfalto, più i colpi scendevano su quello, ormai in stato di semi incoscienza.
Non ebbe bisogno di armi: gli bastò soltanto l’enorme rabbia che si sentiva dentro per massacrare quel giovane  biondo dagli occhi blu.
E non lo colpirono quegli occhi glaciali, ne lo fermarono i lineamenti delicati e puliti, o l’immatura bellezza. Non si fermò un secondo a pensare a cosa stesse distruggendo, o quanto dolore potesse provocare attraverso le sue mani insanguinate veicolate dall’odio tremendo provato verso l’uomo, guidate dalla disillusione per un mondo dannato ed incurabile.
Quelle mani, forti, addirittura mortali, erano l’unica medicina contro quel mondo sporco.
Il ragazzo steso a terra era solo un’infezione da estirpare, sangue da spargere sul nero asfalto.
Lui era il più grande angelo della morte.
E ancora quelle mani che affondavano nella pozza di sangue, l’infetto quasi esanime, col viso deturpato, irriconoscibile.
Ma il sangue continuava a chiamare altro sangue, e quella furia omicida non si era ancora placata. 
E ormai per il malcapitato non si trattava più di morire o sopravvivere, quanto piuttosto di soffrire il meno che fosse possibile, e chiamava la morte come una sua protettrice. 
Come fosse una liberazione.
E finalmente, carnefice e vittima giocavano allo stesso gioco. Finalmente condividevano un desiderio.

E giocarono ancora, fino a che la Signora non giunse, e quell’uomo folle d’ira continuò a colpire anche quando ormai era rimasto da solo a giocare. 
Poi tutto si fermò.

lunedì 5 maggio 2014

10

“E il cielo sta sempre al suo posto a fissare il mondo. E guarda tutto dall’alto del suo blu d’oltremare, blu cobalto, blu di bianco striato. 
E guarda tutto con superiorità e superficialità, mostrando, orgoglioso e vanitoso, tutta la sua esagerata beltà. E quando poeti, scrittori, cantanti ed amanti ne decantano lo splendore, sembrano non accorgersi del suo cinismo, incantati da sfumature ultraterrene, accecati stupidamente dalla leggiadria dei tanti sogni che promette.
E la stoltezza della nostra umanità ci porta a pregare con le mani giunte verso il cielo e gli occhi speranzosi a guardare verso chi la speranza la fa solo annusare.
Chi guarda il cielo, chi sogna il cielo, chi impreca contro il cielo. Il cielo che meriterebbe solo di essere ignorato allo stesso modo di come lui ignora tutti noi e tutte le nostre faccende. Non meriterebbero attenzioni i suoi colori sgargianti e le sua immensa grandezza. I poeti, gli scrittori, i cantanti e gli amanti guardano il cielo come si guarderebbe un Dio: e in adorazione ogni macchia ha storie da narrare, ogni nuvola nasconde mille segreti.
A guardare il cielo da dietro le sbarre tutte le sue magie sembrano sparire nonostante i suoi colori non siano affatto sbiaditi: le nuvole coprono il sole allo stesso modo, il sole lo illumina allo stesso modo e le rondini lo traversano allo stesso modo. Da dietro queste sbarre il Dio Cielo perde tutta la sua poesia.
Per chi è oppresso dal cielo gli angeli non dormono sulle soffici nuvole.
E si fottano i poeti.
Per quelli per cui il cielo è solo un complemento d’arredo, la sua bellezza non può essere trascendentale.
E si fottano tutte le loro patetiche poesie.
Il cielo sta sempre fermo, senza mai scappare. La sua bellezza si può rimirare giorno dopo giorno. Non bisogna credere a chi ci chiede estasiato se abbiamo mai visto un cielo dai colori più belli. Il giorno seguente quel cielo sarà sempre lì e la prossima settimana anche.

Ora per me è facile accorgermene.”

giovedì 1 maggio 2014

9

Quello fu il giorno in cui ebbe più paura. Il giorno in cui si rese conto di essere trascinato dalla passione, in quello che faceva.
Uccidere, massacrare, sotterrare, gli lasciavano addosso una scarica d’adrenalina incontrollabile ed eccitante. 
Molto eccitante.
Non era solo disprezzo ed odio. Non si trattava soltanto del ripugnante puzzo dell’umanità. Sull’altra faccia della medaglia c’era l’allettante sapore del sangue: acre e dolciastro ad uno stesso tempo. Non era solo rabbia e disperazione. C’era da mettere in conto il senso di potere che lo pervadeva in quei momenti: l’attimo prima, quando un paio di occhi terrorizzati lo guardavano supplicanti, e l’attimo dopo, quando il sangue scorreva a fiumi. Quello che c’era in mezzo quasi non esisteva. Succedeva tutto troppo in fretta.
E così si perdeva il meglio, ironia della sorte non riusciva a gustarselo.
Si era svegliato con quel sapore in bocca, quello del sangue, ma forse era stata la sua immaginazione, il desiderio, a farglielo sentire in bocca.
Era poco più che un ragazzo, e si sa quanto siano forti le emozioni che si provano a quell’età. Si sentì trascinare fuori di casa, come un predatore che si appresta a vagare in cerca della sua prossima preda, guardingo ed eccitato. Era una calda mattinata estiva, ma per quanto lo riguardava sarebbe potuta essere una gelida notte invernale.
Era in trance: sentiva solo quel sapore in bocca, a guidarlo attraverso un mondo sfocato.
In quel giorno si sentì malato, incapace di controllare le proprie emozioni, schiavo di mille sensazioni malate
Attese di essere da solo con la sua vittima, una casuale, un ragazzo come ce ne erano tanti, senza nulla di particolare, nessun segno distintivo, nessun motivo per cui odiarlo, disprezzarlo, ucciderlo.
Lo colpì rapido come un felino, senza dargli scampo, con tutta la furia di cui era capace.
Il ragazzo si accasciò a terra, esanime.
Non era privo di ideali, ma comunque era morto. Non era uno di quelli che avevano reso marcio il mondo, ma non si sarebbe più alzato.
Col pugnale insanguinato stretto nel pugno si sentì vivo ed onnipotente. Si sentì colpevole.