mercoledì 16 aprile 2014

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Sollevò la testa a guardare dritto dinanzi a sé, sfuggendo ai mille canti di sirena che aveva in testa.
La voce stanca, annoiata e saccente del professore era un sottofondo di pianoforte in una canzone metal: difficile da ascoltare, monotona, inadeguata.
L’aula rischiava di esplodere in quel frastuono di batteria e chitarra elettrica fatto di voci stridule di studenti e stridii di sedie sul pavimento impolverato.
Il palco era illuminato da neon resi opachi dal tempo.
Fuori dalla finestra neanche il brullo paesaggio autunnale riusciva a soffocare quel senso di inadeguatezza che sentiva crescere dentro di sé.
Guardava gli alberi secchi e le foglie gialle e si sentiva come se anche lui dovesse cadere a terra da un momento all’altro, alla prima folata di vento un po’ più forte.
Sapeva di essere diverso dal predicatore seduto dietro la cattedra, che cianciava senza ascoltare, che parlava senza usare l’anima; sapeva d’altro canto di essere altrettanto diverso dai cinque, dieci, venti ragazzini della sua stessa età eppure tanti banali e stolti e stupidi da essere soltanto in grado di urlare e strepitare a malomodo, come per una strana involuzione dell’idioma umano e dell’umanità stessa.
Sorrise a quel pensiero, e fu un sorriso amaro, quello di chi è di fronte ad uno schifo, sa di non poter fare nulla per cambiarlo e odia. Sorrise di odio.
Una puntura d’ago è solo un pungichio sulla pelle, ma mille spilli conficcati nel cervello ti fanno credere di essere pazzo.
Aveva voglia di sputare addosso a tutti quelli che gli stavano davanti, i belli che si sentivano troppo belli e i brutti, quelli davvero troppo brutti e addosso a quelli senza un briciolo di curiosità. Voleva sputare su tutta quella gente spenta.
Si sentiva pazzo, ma forse era solo sbagliato.

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