domenica 29 giugno 2014

26

Marcire in galera. Il verbo è appropriato rispetto alle sensazioni che provava da recluso.
Marciva mentre i suoi capelli si facevano bianchi, mentre le rughe cominciavano a segnargli il viso, mentre si insozzava i polmoni, una sigaretta alla volta.
E come sempre il mondo continuava ad andare avanti, continuava a riempirsi della merda che l’uomo gli spalmava sopra, veniva stuprato, il mondo.
E la parte davvero inquietante di quel gioco perverso stava nel fatto che lui non si rendesse conto di tutto questo. Come se il mondo stesse ad aspettare che venisse scarcerato. Non lo avrebbe aspettato il suo migliore amico, nel caso ne avesse avuto uno, figurarsi il mondo, sconosciuto ed infame.
E si stancava della sua vita fatta di niente, e si era annoiato del mondo che non cambiava, perché per lui era così.
Aveva letto dei libri in galera, quelli vecchi perché non credeva ne fossero usciti di nuovi: decine di libri ammucchiati sotto il letto o sopra il comodino, e all’inizio gli era parso interessante, persino appagante, fino a che non si rese conto di non avere nessuno a cui raccontarli, nessuno con cui parlarne.
E forse tutto quanto si riduceva ad una stupida chiacchierata: con tua madre, tuo fratello, tuo marito, la tua ragazza, una persona appena conosciuta, un tuo caro amico, la tua prossima vittima legata ad una sedia ed implorante pietà.
Ma era solo.
Dannazione.
Lo era sempre stato.
E  comunque desiderava ardentemente che il mondo lo aspettasse: pregava di continuo un qualche Dio perché una volta uscito non trovasse auto volanti o robot tuttofare o pasta modificata geneticamente, da mangiare cruda.
Non voleva che il sistema operativo installato sul suo pc fosse obsoleto, figurarsi.
Sapeva che altrimenti, in un mondo nuovo, egli stesso sarebbe divenuto obsoleto, ancora più di quanto non lo fosse già stato.
Ancora più solo, ancora di più fuori da ogni schema e da ogni accettata normalità.
Ma la sua era solo vecchiaia.
Era semplicemente il corso naturale di ogni vita.
Il corso di una vita da vivere rinchiuso.

mercoledì 25 giugno 2014

25

Sporcò la tela con un gesto essenziale, quasi dovuto, di qualcuno che ha nel cuore l’opera di una vita e può realizzarla con una semplicità indicibile, perché ha tutto stampato davanti agli occhi: una foto in bianco e nero del mondo perfetto.
Schizzò allegramente, vivacemente, di ogni colore, con foga e violenza, ché non poteva sbagliare e si sentiva davvero invincibile.
In quel salotto impolverato e vecchio, risaltava come un gioiello di bigiotteria esasperato il treppiedi  con la tela poggiata sopra.
A dipingere, esaltato e quasi in estasi, un uomo dalle braccia fini e lunghe, qualche traccia di bianco in testa e un paio di occhiali dalla montatura tenuta su con lo scotch.
Era in piedi, davanti alla sua poltrona preferita, con i cuscini bucati e la stoffa consunta.
Era in piedi, barcollante, che dipingeva le visioni di una vita.
Per terra, in un angolo buio, c’era disteso un cadavere, pallido e rigido. Un uomo vestito bene e con il cranio fracassato.
Sangue sparso d’intorno come se fosse scoppiata una bomba: chiazze, schizzi, tracce di trascinamento.
La stanza era intrisa dell’odore di muffa tipico dei luoghi chiusi e di quello di sudore del pittore.
E poi c’era il cadavere.
Un gesto dopo l’altro, una pennellata di seguito a quella precedente, cercava di completare l’incompletabile, come se davvero potesse essere così facile esprimere se stessi e raccontare quello che sta intorno.
Cercava, quasi senza volerlo, la libertà che non aveva mai trovato, e si scatenava su una tela bianca cui dare significato.
Come un dio plasma il suo mondo.
L’uomo sdraiato sul pavimento doveva essere morto già da qualche giorno, e il sangue rappreso che aveva addosso era quasi nero, l’unico colore che il pittore aveva lasciato inutilizzato nel suo flacone ancora integro.
Il mondo intorno al pittore non sarebbe mai cambiato davvero, non grazie a quel dipinto quantomeno.
Ma pensava al mondo, e guardava al suo scarabocchio di colori, e sentiva la vita su quella tela, e già donare un’anima ad un mondo che non ce l’ha, è un capolavoro.
E sapeva farselo bastare.

domenica 22 giugno 2014

24

Era solo un’altra delle sue perversioni mentali, quella degli scacchi.
E naturalmente era una perversione sporca di sangue: anche soltanto perché la scacchiera che immaginava era ricoperta di macchie come lo sarebbe un vero campo di battaglia.
Ma la vera perversione, secondo lui, l'alienazione del gioco rispetto alla realtà, stava nel fatto che su un campo di battaglia vero, non molti si sacrificherebbero per il proprio re, anche quando amato e rispettato.
In questo senso diceva che il gioco andasse contro la sensibilità umana.
Era convinto fosse la parte del gioco più difficile da spiegare: il re non può stare sotto scacco.
Tutto va per lui sacrificato.
Lunga vita al re.
E mentre il cavallo salta da un bianco a un nero mozzando teste e l’alfiere semina il panico per metà scacchiera, il re resta al suo posto, protetto e praticamente inoffensivo.
Fulcro del gioco e come nessun’altra figura lontano dal gioco stesso.
Lunga vita al re.
Giocava da solo a scacchi, manovrando i neri come i bianchi, e spesso gli sembrava di farlo nella vita come nel gioco. A perdere era sempre lui. Come anche a vincere, si direbbe.
Ma non è la stessa cosa.
A morte il re.
Come quando sentiva l’irrefrenabile istinto di uccidere, come un impulso sessuale o come una divina chiamata. E poi sentiva la propria anima marcire, nel rimorso e nella disperazione.
Ogni volta uno scacco. Mai matto.
Il folle era lui.
Lunga vita al re.
E non poteva muoversi mai, per mettere in salvo il re. Non poteva evolvere il proprio gioco, per potere mettere in salvo il re.
Era un fottuto schiavo del re.
Magari schiavo di un ideale, o di un sogno, come preferiva.
Un ideale irrealizzabile, un sogno privo di concretezza. Solo la maschera di un motivo per vivere.
Era un pedone assetato di sangue.
Un pedone può essere sacrificato.
Poi era il re onnipotente che regnava sui bianchi e sui neri.
Scacco.
Era solo un’altra delle sue perversioni.

mercoledì 18 giugno 2014

23

I momenti davvero terribili erano quelli in cui la lucidità prendeva il sopravvento. L’odio che provava si faceva distinto, chiaro, pulito.
In quei momenti dismetteva il suo caleidoscopio mentale, la nebbia si diradava e riusciva a ragionare e in un tempo si rendeva conto di quanto inutili potessero essere i suoi sogni e tutti i suoi viaggi mentali che poco avevano dei sogni, così come si sentiva ancora più vuoto e più solo.
I sogni lasciavano spazio alla disillusione.
L’odio sfiatava in rabbia repressa.
Sentiva montare quel senso di inutilità che lo tormentava, che non poteva sopportare.
La pazzia gli permetteva ancora di vivere le emozioni di un bambino, la calma e la lucidità invece lo sfinivano.
Spesso quei momenti gli capitavano nelle giornate in cui la pioggia si faceva battente, quasi schizofrenica, come se il suo disagio fosse stato in grado di cambiare il tempo.
Se ancora aveva la speranza di poter cambiare il mondo era perché neanche gli passava per la testa che potessero essere il mondo, la gente o il tempo a condizionarlo. 
Erano attimi terrificanti perché fatti di coscienza, non di furia.
Quelle volte non si sarebbe sporcato le mani, perché non sarebbe stato in grado di fare tutto quello che sapeva fare.
Quasi si faceva vile, debole, insulso come i mostri che lo circondavano.

La follia era sua amica. Era la sua amante.

lunedì 16 giugno 2014

22

Sputò sul corpo esanime, gridando l’ultimo respiro della sua rabbia.
Quindi si lasciò cadere, esausto. Incapace persino di pensare.
Il cadavere coperto di sangue sembrava chiedergli di essere il suo giaciglio, duro e spigoloso.
E in quei momenti le coltellate con le quali gli aveva squarciato il petto non dimoravano  già più nella sua memoria.
Come se fosse una storia di cent’anni prima.
Quasi come se non fosse mai esistita tale storia.
Solo quel corpo a terra, di fianco a lui, lo riportava alla realtà.
Almeno in parte, per quanto fosse capace di vivere la realtà.
Era il segno tangibile che qualcosa fosse accaduto: là dove la testa si rifiutava di arrivare, ci arrivava la carne morta di quell’uomo a terra.
E doveva essere passato davvero poco da quando aveva massacrato quel tizio, eppure già sentiva il bisogno inarrestabile di farlo ancora.
Come se si potesse paragonare il suo bisogno di uccidere alla necessità di creare di un artista.
Certo è una somiglianza ardua da comprendere, non è per tutti.
Qualcosa che possono capire in pochi.
Lui si sentiva un artista. Amava fare quello che faceva e lo faceva con lo stomaco.
Sentiva la necessità di creare e distruggere: scriveva e dipingeva avendo in bocca il sapore del sangue, le dita sporche di sangue, il cuore annerito dal sangue.
Un artista tanto alto nel suo animo e un assassino crudele e volgare. Le due facce, l’una aliena all’altra, della splendida e maledetta luna. 
Dormì per ore su quel corpo, a fianco a quel corpo, insabbiando nel sonno i suoi demoni, più che mai conscio che appena sveglio quei mostri sarebbero tornati più cattivi di prima, immemori del sangue versato.
E ora stava riposando, si stava godendo la distruzione e la perpetrava. Tutto era solo distruggere e creare.
Ma non era tanto bravo a creare.
Amava il mondo e lo odiava profondamente.
Se esprimeva la sua arte lo faceva per migliorarlo, quello stesso mondo che distruggeva quotidianamente.
O forse anche sfogando quella rabbia cercava di proteggere la sua tana.
O ancora il mondo non c’entrava niente, c’erano solo lui e i suoi istinti.
Dio non si interessa  delle sue creature.
Dio non è benevolo e Dio non è malvagio: costruisce e disfa solo perché ne ha voglia.

giovedì 12 giugno 2014

21

Si tolse gli occhiali e pulì le lenti con la maglietta.
Era una serata tremenda, di quelle da dimenticare: pioveva a dirotto, in tv come al solito non c’era nulla di interessante, e dopo le prime tre righe il libro di Ellis che stava leggendo gli si chiudeva davanti.
Una sera da massacro interiore.
Una sera in cui ogni ricordo ritorna a galla, per farti sorridere o molto più per farti scoppiare in lacrime.
Era una di quelle sere in cui ti rendi conto che la tua vita sta finendo un poco alla volta e ti senti come se fossi soltanto uno spettatore: e cazzo, su quel palco pieno di toppe non succede mai niente di interessante.
Una sera di quel tipo che fa sembrare insignificante ogni tua impresa.
Puoi vedere solo l’uomo che finisce, che si consuma in una sigaretta, in una coca cola, in una risata forzata.
Scaraventò contro la parete il libro che non stava leggendo.
E allora notò le vecchie macchie sui muri, e l’umidità che li stava divorando e gli sembrò che quei muri rispecchiassero la sua anima.
Sporca, erosa, lasciata a morire neanche troppo lentamente.
In un istante e solo per un istante pensò di cambiare tutto:adattarsi, tornare a vivere pienamente nella società, accettare quelle regole che disprezzava, farsi accettare da tutta quella gente che lo disprezzava.
Ma fu solo un lampo, di follia o di normalità.
Prese la penna e un foglio di carta, macchiato di chissà cosa.
Rimase a fissare quel pezzo di carta per degli interi minuti, senza staccare mai lo sguardo e tenendo la penna a pochi centimetri dalla superficie bianca quadrettata, senza mai toccarla con la punta.
Si accarezzava il braccio destro rabbrividendo ad ogni imperfezione della pelle, ad ogni piccola, superficiale cicatrice che la deturpava, o che la decorava.
Poi chiuse gli occhi e li riaprì di colpo, come ispirato o impaurito.
Era una sera come tante altre.
Una delle troppe serate grigie  che distruggono il mondo e che rendono ogni vita futile e terribile.
Era una di quelle sere passate davanti alla tv, o a ragionare del niente nascosto dal buio della solitudine. O a non fare niente.
Sere buttate. Giorni buttati. Mesi buttati.
Intere esistenze che si cancellano dal mondo.
Intere esistenze che distruggono il mondo e lo ricostruiscono a modo loro, vuoto.
Un mondo fatto di osceni teatrini, e l’uomo non è eterno.
Tirò via la penna e il foglio.
Si infilò sotto le coperte, nel letto, chiuse gli occhi e sperò che quella sera finisse il prima possibile
Ma a dirla tutta, che vita lo attendeva, il giorno dopo, e ancora giorno dopo giorno?

domenica 8 giugno 2014

20

Chiuse la porta, incamminandosi poco sicuro verso la sua destinazione.
Era una notte buia, di un freddo inverno, secca e ghiacciata.
Il bosco sembrava la perfetta scenografia di un film dell’orrore.
La selva di rami privi di foglie formava una ragnatela complessa, come una labirintica trappola per ogni bambino che temesse l’uomo nero.
Era solo a poche centinaia di metri da casa, ma di notte in quel bosco, ti sarebbe potuto sembrare di non avere mai avuto una casa.
La luna vegliava alta sul mondo, coperta da una coltre di nubi, ed era una luna piccola e pallida, quasi incapace di stare al proprio posto.
Ed entrò nel bosco, tra gli alberi e le sterpaglie, attraversando un sentiero disconnesso e stretto, stringendosi il corpo con le braccia per farsi coraggio.
Non era solo una sciocca promessa fatta davanti allo specchio: era giunta l’ora che il terrore infantile di mille mostri in agguato lo abbandonasse.
La nebbia scendeva a banchi, nascondendo i misteri di quel luogo invisibile a Dio, e quel ragazzino non aveva mai avuto tanta voglia di stare a casa a leggere un libro, a studiare filosofia, o peggio ancora a fare gli esercizi di matematica.
Aveva incubi da esplorare.
La nebbia calava e saliva inquieta, mentre il ragazzo avanzava a passi brevi, attenti ed intimoriti. Era il passo felpato di un felino che si sente in pericolo, con la testa alta, guardingo, pronto alla fuga.
Il bosco cominciava ad avvolgerlo
Ormai, un passo alla volta, era nella selva di alberi, e ogni volta che si guardava alle spalle vedeva sempre più buio, si sentiva sempre più solo, vulnerabile, indifeso.
Girava la testa da una parte e dall’altra, a guardarsi intorno, certo di scorgere creature innominabili in attesa di assalirlo, e aveva lo stomaco in gola, sentiva i muscoli privi di forza.
Poté resistere solo pochi minuti fra mille versi di mille animali e fruscii terrificanti.
Si voltò di scatto, aumentando l’andatura e ritrovandosi a correre. Uscì dal bosco e continuò ad allontanarsi prima di avere il coraggio di voltarsi ancora verso il suo incubo.
Aveva perso, e sentì che non avrebbe mai avuto una possibilità di vittoria, per tutta la vita.
Era un ragazzino terrorizzato, e lo sarebbe stato per sempre.

giovedì 5 giugno 2014

19

“Ogni giorno è uguale ad un altro. Senza soluzione di continuità, senza un inizio o una fine. Un carillon che suona senza pausa la sua dolce melodia che diviene malata, ipnotica.
Un bambino cade e si sbuccia il ginocchio, e le mani: ma quando la mamma lo rialzerà non gli spiegherà che la vita è solo un continuo cadere, in ginocchio, con la testa bassa.
E non saprà quel bimbo, dalla pelle bianca e gli occhi accesi di vita, che dovrà rialzarsi da solo, con le proprie forze, da trovare oppure da trovare, perché non possono esserci altre possibilità.
E quando si cresce, quando si va avanti, si scoprono la notte ed il giorno, le lacrime e i sorrisi, le luci e le ombre.
Ed è tutto così noioso. Tutto fa troppo male.
Ma il gioco si deve giocare e come non mai si deve saper perdere.
Mano a mano che si diventa grandi, un sorriso cambia di significato e a volte diviene orribile come il ghigno di un malvagio clown cannibale.
Bisogna saper ridere della vita come di uno scherzo puerile. Altrimenti va a finire che ti manca l’aria, e vivere in apnea rende tutto ancora più duro.
Come prendere a calci uno zoppo, o togliere il bastone ad un cieco.
Davvero mi manca l’aria. Perché è sempre la stessa, riciclata, consumata e sporca.
E resto al mondo a guardare ogni identica aurora con occhi diversi e ad ingoiare quell’aria marcia perché spero che le cose un giorno possano cambiare.
Il mondo è uno schifo e io continuo a sognare: solo che i sogni muoiono troppo più spesso degli incubi.
Ogni giorno è uguale ad un altro. Uguale a quello prima, uguale a quello dopo. Perché anche i giorni che sembrano speciali sbiadiscono del loro colore sgargiante. Come niente.
Sono patetico. Ridicolo e patetico.”
Fuori piovigginava, dentro quell’uomo solo e depresso era scoppiata una tempesta.
E la notte era ancora lungi a venire.
L’ora delle streghe e dei lunghi mal di testa fatti di rabbia sarebbe stata eterna come la vita.
Ma la vita non è eterna.

domenica 1 giugno 2014

18


Gridò rivolto alla notte settembrina, ancora calda del ricordo dell’estate, e gridò ancora, per ore, come se fosse l’unica cosa che fosse in grado di fare.
Gridò la sua rabbia, il suo dolore, la sua immensa paura, la sua eterna voglia di cambiare il dipinto nella cornice.
Gridò come faceva spesso, mentre un vento caldo e feroce gli sferzava i vestiti, mentre lui continuava a gridare.
Era pallido in viso, impolverato dalla giornata passata a camminare e a gridare. Era pallido e smunto, perché vuoi il caldo, vuoi il male di vivere, non mangiava da giorni e si maltrattava con odio.
Faceva caldo e un uomo malato urlava guardando il mare, come se quella notte sarebbe dovuto morire.
E forse era già morto, o forse non era mai nato.
Calpestava la sabbia e urlava.
Urlava e basta.