domenica 22 giugno 2014

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Era solo un’altra delle sue perversioni mentali, quella degli scacchi.
E naturalmente era una perversione sporca di sangue: anche soltanto perché la scacchiera che immaginava era ricoperta di macchie come lo sarebbe un vero campo di battaglia.
Ma la vera perversione, secondo lui, l'alienazione del gioco rispetto alla realtà, stava nel fatto che su un campo di battaglia vero, non molti si sacrificherebbero per il proprio re, anche quando amato e rispettato.
In questo senso diceva che il gioco andasse contro la sensibilità umana.
Era convinto fosse la parte del gioco più difficile da spiegare: il re non può stare sotto scacco.
Tutto va per lui sacrificato.
Lunga vita al re.
E mentre il cavallo salta da un bianco a un nero mozzando teste e l’alfiere semina il panico per metà scacchiera, il re resta al suo posto, protetto e praticamente inoffensivo.
Fulcro del gioco e come nessun’altra figura lontano dal gioco stesso.
Lunga vita al re.
Giocava da solo a scacchi, manovrando i neri come i bianchi, e spesso gli sembrava di farlo nella vita come nel gioco. A perdere era sempre lui. Come anche a vincere, si direbbe.
Ma non è la stessa cosa.
A morte il re.
Come quando sentiva l’irrefrenabile istinto di uccidere, come un impulso sessuale o come una divina chiamata. E poi sentiva la propria anima marcire, nel rimorso e nella disperazione.
Ogni volta uno scacco. Mai matto.
Il folle era lui.
Lunga vita al re.
E non poteva muoversi mai, per mettere in salvo il re. Non poteva evolvere il proprio gioco, per potere mettere in salvo il re.
Era un fottuto schiavo del re.
Magari schiavo di un ideale, o di un sogno, come preferiva.
Un ideale irrealizzabile, un sogno privo di concretezza. Solo la maschera di un motivo per vivere.
Era un pedone assetato di sangue.
Un pedone può essere sacrificato.
Poi era il re onnipotente che regnava sui bianchi e sui neri.
Scacco.
Era solo un’altra delle sue perversioni.

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